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«Vidi Charlot piangere per Umberto D»

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E sul figlio Carlo: «A 16 anni imparò a recitare dando la voce ai burattini»

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Pavimento a mattonelle granigliate anni '50, un nespoletto e un cespuglio di fragole tra i vasi allineati alla buona lungo la ringhiera. «In questa casa ci sto da cinquant'anni, qui fuori i ragazzini ci correvano in bicicletta». Mario Verdone, lo storico del cinema e del teatro, allarga la mano a inseguire con la mente i «ragazzini». Luca e Carlo, i suoi figli. Ha un parlare colorito, mima voci e gesti, il professore. Come quando imita Fidel Castro ricordando un viaggio a Cuba nell'85, a inaugurare la Escuela del Cine Latinoamericano voluta dal lidér maximo dietro pressione di Fernando Bini, che insieme con Gabriel Garçia Marquez aveva frequentato il Centro sperimentale di Cinematografia quando Verdone era vicedirettore. «L'istituto era a pochi chilometri da L'Avana. Sul palco improvvisai un discorso in spagnolo: Comandante, señoras y señores, y todos...Alla fine Castro mi ringrazia e a Bini dice che è il padre del cinema cubano. Allora io sono il nonno, aggiungo. E Fidel: Verdad, toto nacio en Roma. Vero, tutto nasce a Roma». Allora professor Verdone suo figlio Carlo ha imparato da lei a fare le voci. «Per lui era una mania. Vede in salotto quella porta riquadrata a vetri? Ne manca un angoletto. Una sera con mia moglie e alcuni amici improvvisavo scene teatrali. Era tardi, vedo da quel buco due occhietti neri. Di Carlo. E tu che ci fai qui, perché ti sei alzato dal letto? gli faccio severo. Risponde: Mi piace, voglio recitare pure io. E che sai fare? I rumori. E quali? Tutti, pure quello del cesso!». Ma lei poi lo prese sul serio. «Era patito per le imitazioni. La zia di Siena il suo pezzo forte: O' Mario, lo voi un caffettino, lo voi un brodino? Quando morì mia madre, che abitava con noi, la fece grossa. La vecchietta zoppicava un po'. Una notte sentii in casa proprio quello stesso strano passo. Mi alzo col cuore in gola, apro la porta, quasi faccio un urlo. E lo ricaccio in gola: era mio figlio che arrancava in corridoio, proprio come la nonna. Alla fine, aveva sedici anni, mi inchiodò: Papà voglio recitare, mandami in una compagnia. Lo presentai a Maria Signorelli, imparò a dare la voce ai burattini. Poi fu l'ora delle macchiette all'Alberichino. Piacque a Sergio Leone, che gli fece fare "Un sacco bello". E ha continuato». Come ha cominciato ad amare il cinema? «Per strade indirette. Mi laureai con Bobbio a Siena, in filosofia del diritto. Una tesi repubblicana in epoca tardo-monarchica. Bobbio mi nominò assistente alla sua cattedra. Intanto scrivevo operette goliardiche in vernacolo toscano e mi occupavo dil cinema. Avvenne che al Guf proiettai L'Angelo azzurro, al federale non andò giù, era il film di un ebreo...Mi tolse l'incarico, me ne andai a Roma, dove trovai un impiego all'Onmi. Un giorno il capufficio mi disse: Per questo lavoro non sei tagliato. Pensavo di aver perso lo stipendio, invece lui era un pezzo grosso anche al Centro Sperimentale di Cinematografia e mi assunse lì. Mi occupavo della rivista Bianco e Nero, dell'ufficio didattico. Conobbi i grandi della regia, Chaplin, Bresson, de Oliveira. Fui nominato vice direttore, lavorai a fianco di Rossellini, quando divenne presidente del Centro. E proprio in quell'epoca mi licenziai». Non andava d'accordo con Rossellini? «Non condividevo i suoi criteri organizzativi. Voleva che tutti gli allievi seguissero corsi di regia. Erano 40, non era possibile, i corsi di regia costavano troppo, e poi dovevamo formare anche attori, costumisti, scenografi. Lui insisteva quando lo accompagnavo ogni sera a casa in macchina. Ma intanto mi raccontava la sua vita. Presi da qui le notizie che riversai nella biografia su Rossellini. Perché discutevamo sul Centro ma delle sue pellicole ero entusiasta». Dal cinema vissuto al cinema spiegato agli studenti universitari. Non se ne è rammaricato? «Proprio per niente. Avevo tenuto corsi alla Luiss, all'università di Siena, mi misi in testa che dovevo diventare docente di storia del cinema. Scrissi al ministro della Pubblica I

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