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Stoccolma nega il Nobel al suo grande svedese. Ma sabato lo premia il Nonino

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Il tabù, la ferita, l'indifferenza, la diplomazia. Chissà. Tomas Tranströmer - massimo poeta scandinavo, tradotto in quarantasei lingue, versi di culto negli States, ispiratore per altri Nobel, come ha confessato Brodskij - a tutto è disposto a rispondere meno che alla domanda più ovvia: che cosa c'è dietro l'annoso gran rifiuto nei suoi confronti da parte dell'Accademia di Stoccolma. E però un premio, e di prestigio, dopodomani lo riceve nel Bel Paese («Sa, l'Italia è stata la meta del nostro viaggio di nozze, Firenze, Padova, poi Venezia», confida Monica, sua moglie). È il Premio Internazionale Nonino, glielo consegnerà Claudio Magris su uno sfondo molto meno ingessato e certo più palpitante di quello della Reale Accademia di Svezia, le distillerie dei Nonino a Percoto, Udine: tra enormi botti dove matura la grappa, tavole apparecchiate con le tovaglie a quadretti rossi e bianchi, brindisi e balli che trascineranno premiati, pubblico e giurati. Dunque, il Nobel mancato. Tranströmer glissa, tace. E non è perché da quindici anni un ictus gli ha tolto la parola. Ma proviamo a spiegarlo noi, il motivo. Gli accademici di Svezia hanno pudore a scegliere un concittadino per l'alloro letterario più importante del mondo. Politically correct, soprattutto da quando il trinariciuto consesso svedese è, un anno sì e l'altro pure, squassato da veleni. Tre anni fa il segretario che accusa e si dimette. Prima l'eco delle polemiche montate quando il Nobel andò a due autori svedesi, Harry Martinson, poeta (1974), e Eyvind Johsson, romanziere e saggista. Martinson - pubblicato in italiano da Einaudi e dalla Italica di Giacomo Oreglia, fine traduttore anche di Tranströmer - fu tanto schiacciato dalle critiche da cadere in depressione e togliersi la vita, mentre era ricoverato in ospedale. Un episodio di cui la pur liberissima stampa svedese parla malvolentieri. Ma certi ricordi paiono sbiadire in questa vigilia di Premio Nonino. Li cancella la luce accecante della casa di Stoccolma dove Tranströmer vive da poco, tornato dopo 35 anni nella capitale, dov'è nato nel 1931. L'appartamento, tre stanze nella zona sud della città, è a un piano alto. Dalle finestre si vede il mare. A lui piace, l'estate la passa a Rünmaro, nell'arcipelago cantato da Strindberg. Campeggia nello studio un pianoforte a coda. La musica è l'altra parte della sua vita. «Ascolto musica tre, quattro ore al giorno, almeno un'ora la suono - mi racconta di lui in un biglietto - Scelgo le composizioni per mano sinistra, ce ne sono almeno cinquecento. Eccezionale quella di Ravel». Non ha vissuto di letteratura, Tranströmer. Meglio, non ci ha campato. Di professione ha fatto lo psicologo, ha curato disabili e tossicodipendenti. «Lei mi chiede che cosa, poesia, musica, psicologia, mi ha preso di più. Da adolescente suonavo, poi a quattordici anni scelsi la letteratura. Ma mantenermi con le recensioni, come molti amici, non mi piaceva. Divenni psicologo. E mi sono domandato molte volte come scendere nell'animo umano abbia contribuito alla mia scrittura. Un raccordo certo non visibile, perché quello che si scrive è la summa delle esperienze». C'è un groviglio di culture, nei versi di «Tumas» Tranströmer. Le terzine, la tecnica degli haiku giapponesi, la metrica classica, il verso saffico. «Al ginnasio dovevamo tradurre Orazio, mi interessavano le forme poetiche latine. Poi l'endecasillabo dantesco. E ancora, tra i vostri autori, Quasimodo, Calvino, Luzi, Montale, Ungaretti». Poesie tanto più brevi quanto più semanticamente dense, un magistrale uso della metafora («L'attimo si fa scuro/ e rimane come il segno dell'accetta in un ceppo»; «La Svezia è una nave in disarmo,/ tirata in secco»). Una rincorsa verso il senso ultimo dell'esistenza. Oltre la religione. «Non sono un mistico, Dio l'ho visto passare velocemente di lato. E a volte non sono sicuro nemmeno di questo». Un carattere lieve, quanto più persistente è la sua indagine nel mistero della morte e della trascendenza. Eppure Tranströmer ha

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