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di GIAN LUIGI RONDI ERA una grandissima attrice.

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Il suo massimo fulgore, la profondità della sua recitazione, comunque, proprio con Bergman che disse una volta a me — e io li riferii qui su Il Tempo — che Ingrid Thulin sapeva sottoporsi come cera al tocco della sua creatività riuscendo sempre a modellarsi secondo i suoi dettami. Dettami unici, perfetti, come di rado un autore di cinema ha saputo impartire ai suoi interpreti. Nel «Volto», per esempio, nel «Silenzio», nel terribile e straziato «Sussurri e grida», anche se, tra i primi incontri di Bergman con la sua «cera», bisogna annoverare sia «Il posto delle fragole», dove la parte, comunque, era di modesto spessore, sia «Alle soglie della vita» che, a metà degli anni Cinquanta, fece già vincere a Ingrid il premio per la migliore attrice quando ancora in Svezia non la si considerava tra le maggiori. Dopo Bergman, però, e non più in Svezia, altri grandi autori, in altri paesi: Vincente Minnelli con i suoi «Quattro cavalieri dell'Apocalisse», Alain Resnais, con «La guerra è finita», Luchino Visconti con «La caduta degli dei» (nella foto), Giuliano Montaldo con «L'Agnese va a morire», e persino Tinto Bras con uno dei suoi pochi film sinceramente drammatici «Salon Kitty». Gli occhi fondi, la mimica tesa a volte fino allo spasimo, il senso dello spettacolo radicato intimamente alla sua indole. Non solo, però, come attrice. L'attendeva anche la regia: nel '78, insieme a due suoi complici di sempre, Erland Josephson e Svan Nykvist, in quel film tutto vibrazioni interiori che fu «Noi due una coppia»; più tardi, nell'81, da sola, in «Cielo spezzato», una lirica rievocazione autobiografica pervasa anche da un soffio di umorismo. Per ritornare ancora una volta con Bergman in «Dopo la ripetizione», ormai nelle vesti di una madre. Adesso, però, al momento del commiato — per me anche doloroso data la lunga amicizia con cui mi ero legato a lei (mi diceva, pensando alla Bergman: «Siamo le due Ingrid della tua vita») — per ricordarla meglio e pur citando tutte le sue interpretazioni straordinarie, mi soffermo sul finale di «Luci d'inverno», quello in cui Bergman, violando genialmente la sua grammatica cinematografica, chiudeva il film sostando a lungo solo sul suo volto in primo piano. Un monumento alla recitazione, il monumento, tragico, di un'attrice eccelsa.

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