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Muti, soffio di vita a La Fenice

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Ma se così fosse, la sua funzione rischierebbe di sconfinare nell'inutilità. In vero, un teatro è una potenziale sede dell'anima: un benefico ricovero alla sua esistenza inquieta, fragile e generosa; un balsamo alle sue ferite ed un invito al ballo delle sue dovizie. Un teatro è simile ad un tempio; uno spazio di culto dove l'uomo fraternizza con gli uomini nel partecipare, attraverso una rappresentazione, alla propria messa in vita corale. Nulla di più spirituale ed universale di questo rito, cui un edificio ci sollecita nei casi migliori con raro fascino e squisita sollecitudine. Venezia, fantasmagorìa ardita dell'anticoncetto di città, o quintessenza della più rarefatta sognerìa urbana, non poteva tardare a ricostruire il proprio teatro, La Fenice, il teatro più bello al mondo, nato dalla verde eccitazione dell'acqua immota e distrutto dal fuoco, or sono sette anni. Venezia senza la Fenice era come un monte senza luna: i veneziani erano gravemente immelanconiti e la congrega delle maschere si era liquefatta a poco a poco. Iersera, d'un tratto, la rinascita: il "natale" di Venezia con re magi dai cinque continenti e le più superbe tecnologie a riprendere le immagini fastose nelle quali si specchiavano e rischiaravano i beati convitati internazionali, vestiti di lustro favoloso: siccome licet semel in vita (o in anno, o cotidie: dipende poi anche dalla non-vedente sorte).... Avviluppata di luci, certo era bella, bella assai, iersera La Fenice, introdotta dal bianco pronao chiaroscurato dalla notte in smoking. Ma erano più belli ancora, se mai possibile, la platea ammantata di rosa antico, sotto l'alto sfolgorare del palco reale rosso rubino, e la distesa del sipario di velluto verde, costellato da un universo di margheritine (milleottantaquattro) profumate all'uopo in un bagno d'oro antico. L'anima ha pure bisogno di riguardi e carezze, e più ne ha più armonizza a sé la carcassa che la racchiude e che la informa dei modi del mondo. Noi si avrebbe preferito, per l'inaugurazione, un'opera lirica, ma il teatro veneziano ancora non è pronto al cimento: sarà, nel novembre del 2004, la «Traviata», che alla Fenice ebbe la prima assoluta e che sarà diretta da Lorin Maazel. Iersera è stato un memorando concerto ad animare il teatro e non poteva non salire sul podio dell'Orchestra e del Coro veneziani Riccardo Muti. La bacchetta è stata anticipata dal troppo lungo saluto del sindaco nella letizia del teatro riconquistato. L'Inno di Mameli ha spazzato le parole e ha dato la stura alla musica. Da prima un Beethoven raro e modesto: «La consacrazione della casa», scelto sovrattutto per il titolo beneaugurante; quindi la corale «Sinfonia dei Salmi» stravinskijana, contro i cui spigoli ritmici e timbrici non s'è crepato il bel suono-confetto che produce il teatro, e del resto trepido è stato il maestro come solenne e barocco lo è stato nel «Te Deum» del Caldara. La chiusura con due Marce wagneriane, ignote ai più: «Kaisermarsch» e «Huldigungsmarsch», ricche di polpa enfatica non tradita dal podio. Quando il concerto è finito, fuori la nebbiolina fitta, nella quale vaporavano gl'invitati, faceva l'amore coll'acqua gelida della laguna - un battello solitario portava di nascosto dame e cavalierei estenuati all'Arsenale. Lì cominciava un banchetto arcano e principesco: a capotavola, si dice, Casanova. La notte ha taciuto sugli ultimi tintinnari dei calici.

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