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di GIAN FRANCO SVIDERCOSCHI ALL'INIZIO degli anni Sessanta era data per finita.

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Erano convinti che la parrocchia avesse esaurito il suo compito storico. La consideravano una istituzione anacronistica, superata, per la quale non ci sarebbe stato più posto nella Chiesa del futuro. Apparsa fra il VI e il VII secolo, in un regime di cristianità, l'istituzione parrocchiale era nata per amministrare una comunità già esistente, e non, com'era adesso richiesto, per evangelizzare. Plasmata sulla civiltà patriarcale-contadina, ormai sul punto di sparire, la parrocchia era rimasta legata rigidamente al principio territoriale, quando al contrario la società moderna si caratterizzava sempre più per il pluralismo e l'estrema mobilità delle persone. Sembrava davvero arrivata la fine. E invece, una volta ancora, s'è scoperto che l'esperienza cristiana non può essere vissuta se non all'interno di una comunità. Il Concilio ha lanciato la riforma liturgica, rinnovando le Messe domenicali. E intanto, in reazione alla solitudine, all'anonimato delle città, molta gente ha sentito il bisogno di mettere radici, di ritrovare le ragioni della solidarietà, di ricucire i rapporti umani. E così, la parrocchia è sopravvissuta. Anzi, oggi, sono per primi i sociologi a difenderla. In quanto, affermano, si tratta dell'ultima struttura rimasta in grado di umanizzare la vita sociale, di far da polo di aggregazione in molte periferie. È il parroco che può avvicinare l'intera popolazione del territorio, perlomeno in occasione dei sacramenti che segnano le tappe fondamentali dell'esistenza umana. Con ciò, comunque, non si può dire che la parrocchia abbia superato definitivamente la crisi. Prova ne sia che da oggi le sue problematiche saranno al centro della riflessione dei vescovi italiani, riuniti in assemblea straordinaria ad Assisi. Si cercherà di ridisegnare la struttura e la missione delle 26 mila parrocchie che ci sono nel nostro Paese, e dove di fatto si concentra la vita spirituale, anche se spesso saltuaria, di molte persone. Ma non sarà un compito facile. Perché ci sono ancora tanti preti - e lo scriveva pochi giorni fa ad «Avvenire» un sacerdote di Pavia - che non credono più nell'attuale modello parrocchiale. E perché ci vorrà molto coraggio per liberare la parrocchia dal peso di una caratterizzazione troppo burocratica, amministrativa, e che il più delle volte la riduce a distributore automatico di servizi religiosi. Così come riduce il parroco a un funzionario, prigioniero dell'apparato organizzativo, della routine. E dunque, per prima cosa, la parrocchia, oltre ad occuparsi della pastorale dei sacramenti, dovrà incrementare gli altri due impegni prioritari, l'annuncio della parola e la testimonianza della carità. Dovrà essere ripensata non solo in rapporto alla figura del prete, e alla progressiva diminuzione del clero, ma prima ancora alla promozione dei laici cristiani quali veri corresponsabili della missione, e non più considerati semplicemente dei delegati o, peggio, dei supplenti del sacerdote. Ma soprattutto la parrocchia dovrà sviluppare la sua dimensione missionaria. Dovrà raggiungere nei loro ambienti, non solo i cosiddetti «lontani», coloro che non credono, ma anche quanti hanno abbandonato la fede oppure hanno una fede tiepida, infantile, non riuscendo conseguentemente a trasmetterla ai figli. Insomma, la parrocchia dovrà tornare ad essere, pur con una «veste» cambiata, quell'anello di congiunzione decisivo tra la fede cristiana e le domande di senso che oggi tanta gente si pone.

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