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ELEPHANT, di Gus Van Sant, con Alex Frost, Eric Deulen, John Robinson, Stati Uniti, 2003.

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Come, l'altr'anno, ci ha dimostrato quel lungo documentario di Michael Moore, «Bowling a Columbine», che commentava e faceva commentare una strage analoga accaduta nel '99 in Colorado. Oggi Gus Van Sant che spesso, con il suo cinema ha trattato i disagi dei giovani («Belli e dannati», «Da morire», «Will Hunting — genio ribelle») affronta in un liceo dell'Oregon, lo stesso tema (nella foto una scena del film), con la trovata non solo di non commentarlo ma di esporlo solo dal di fuori, nella sua cruda e terribile evidenza. Ci fa conoscere, perciò, una comunità scolastica e per di più della metà del film ce la descrive. Il ragazzo che ama far fotografie, quello che si preoccupa perché il padre non guidi in stato di ubriachezza, la ragazza timida che, a ginnastica, non vuol mettere i calzoncini, tre ragazze amiche per la pelle, una coppia che si isola per le prime espansioni amorose. Segue tutti, nei vasti ambienti della scuola, aule, caffetteria, biblioteca. Per farlo privilegia i «piani sequenza», ripetendo spesso, sotto prospettive diverse, le stesse situazioni, con immagini dilatate che abilmente si alternano ad altre strette sulle facce. Poi fa arrivare, in tuta mimetica e con armi in dotazione all'esercito, i due studenti assassini, così felici di uccidere che alla fine, dopo la strage, uno farà fuoco anche sull'altro. Nel gelo, con immagini prima cronistiche poi agghiaccianti. Sempre senza spiegare, centuplicando, con quel distacco, l'orrore. Cui fa da contrasto, nella colonna sonora, il «Chiaro di luna» di Beethoven. Gli interpreti sono tutti veri studenti. Facce quiete, anche gli assassini. G. L. R.

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