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di MASSIMO TOSTI ALL'ALBA del XX secolo, l'emancipazione femminile muoveva i primi, timidi, passi.

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Quella conquista, ritenuta fondamentale, aveva suscitato legittime speranze, in molti Paesi occidentali. La richiesta di estensione del suffragio universale aveva provocato la nascita dei primi movimenti di suffragiste (poi ribattezzate, in modo ironico, suffragette). Nel 1903, Emmeline Pankhurst fondò a Londra la Women's Social and Political Union, la prima organizzazione femminista. Ma la condizione delle donne era ben lontana dalla parità. Erano poche quelle che studiavano, pochissime quelle che si laureavano, ancora di meno quelle che riuscivano a conquistarsi uno spazio importante nella società. E fu sempre nel 1903 - esattamente cento anni fa - che una giovane polacca trapiantata a Parigi vide riconosciuto il proprio contributo ai progressi dell'umanità. Fu lei a offrire un modello concreto a tutte le altre donne che si battevano per il riconoscimento di una pari dignità con gli uomini. Si chiamava Marie Sklodowska, aveva 36 anni, e si era già guadagnata la stima dei colleghi scienziati, che - per la maggior parte - la conoscevano con il cognome da sposata: Madame Curie. A lei l'Accademia Svedese delle Scienze attribuì il Premio Nobel, il primo conferito a una donna, per le sue ricerche sulla radioattività. Con lei furono premiati anche il marito e compagno di laboratorio, Pierre Curie, e un altro scienziato francese, Henri Becquerel. La storia di Marie somiglia parecchio quella della piccola fiammiferaia di Hans Christian Andersen: era arrivata a Parigi nel 1891, trascinata dall'amore per la scienza. Aveva lasciato Varsavia per studiare fisica alla Sorbona, affrontando sacrifici enormi. Per mettere da parte il gruzzolo necessario, aveva lavorato come governante in Polonia; il padre professore di matematica, le mandava quel che poteva. Aveva preso in affitto nel Quartiere Latino una stanza (una soffitta, tanto per completare il quadro). Faceva freddo lì dentro, ma la stufa era spenta, perché Marie non aveva i soldi per il carbone. Saltava i pasti, per la stessa ragione. Le succedeva spesso di svenire. Pensava di essere malata, soffriva semplicemente di inedia, provocata dal gelo e dalla fame. I primi tempi, alla Sorbona, molti ragazzi si voltavano a guardarla. Il suo corpo aggraziato, i suoi capelli biondo-cenere e il suo volto slavo non lasciavano indifferenti i suoi coetanei. Ma con gli anni - per via delle misere condizioni di vita - si era imbruttita. Questo non aveva impedito a Pierre, il futuro marito, d'innamorarsi di lei. Si conobbero nel 1894, in un laboratorio di fisica (neanche a dirlo). Lui era celibe, come capita agli scienziati che non hanno tempo per le piccole debolezze della vita. «Pierre - raccontò molti anni dopo Eve, la loro seconda figlia - guardò i capelli biondo-cenere di Marie, la sua fronte alta e curva e le mani già macchiate dagli acidi del laboratorio. Era affascinato dall'idea di parlare a una donna giovane e graziosa usando termini tecnici e formule complicate. Le chiese se poteva andare a trovarla. Marie lo ricevette nella sua stanzetta, e Pierre - con il cuore stretto alla vista di tanta povertà - apprezzò la sottile rispondenza fra il carattere e l'ambiente. In una soffitta mezza vuota, con un vestito logoro e quei lineamenti ardenti e decisi, Marie non gli era mai apparsa tanto bella. Ciò che lo colpì fu non solo la sua totale devozione al lavoro, ma anche il suo coraggio e la sua nobiltà. Ci vollero dieci mesi prima che lei accettasse l'idea del matrimonio. I primi giorni della loro vita insieme Pierre e Marie andarono in giro per l'Ile-de-France in bicicletta. Le biciclette erano un regalo di nozze». La primogenita di Pierre e Marie - Irène - nata nel 1897, avrebbe ottenuto il Nobel per la Chimica, nel 1935, insieme con il marito Frédéric Joliot, per il loro contributo alla scoperta del neutrone e della radioattività artificiale. La madre, Marie, rimasta vedova nel 1906 (Pierre fu investito da un carro trainato da un cavallo), ottenne un secondo Nobel (per la chimica) nel 19

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