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di CARLO DE RISIO MOSCA, Museo Puskin, il più prestigioso della Russia dopo l'Ermitage di San Pietroburgo.

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in un angolo, un militare annoiato ha l'incarico di vegliare su un patrimonio archeologico di incalcolabile valore. Eccolo, sistemato in diciannove bacheche illuminate, il «Tesoro di Priamo» (o meglio, una parte di esso) scoperto da Heinrich Schliemann nel 1873, da lui donato al Museo delle Antichità di Berlino, trafugato dall'Armata Rossa nel 1945, «restituito» al mondo esattamente dieci anni fa da Boris Eltsin. Le autorità russe — ci viene detto — consentono a fasi alterne l'accesso ai visitatori, un po' per motivi di sicurezza, un po' perché il tesoro è oggetto tuttora di contestazione da parte della Germania, che intende riaverlo. Di recente, proprio su «Il Tempo», in un'intervista, il professor Louis Godart — Consigliere per la Conservazione del Patrimonio Artistico della Presidenza della Repubblica — ha sdrammatizzato il contenzioso russo-tedesco sull'«oro di Priamo» poiché, in vista di un'unica «area culturale europea», la politica delle restituzioni non ha senso. Ma, intanto, di una mostra itinerante del tesoro, fuori dei confini della Russia, non si parla ancora. Nella sala, lo sguardo va istintivamente allo splendido diadema detto della «Bella Elena»: fu Schliemann a cingere col diadema il capo della moglie Sofia — di trent'anni più giovane di lui — ed a coprirla con altri monili dicendole: «Sei Elena rediviva!». Sbagliava, l'archeologo dilettante, a collocare quell'oro all'epoca della Troia omerica: un abbaglio (non fu il solo) dovuto a eccessivo entusiasmo. Luccica il «Grande Diadema», formato da lamine d'oro battuto a mano, risalente a mille anni prima della Ilio data alle fiamme; fa bella mostra di sé la «Coppa di Zeus», di oro purissimo, del peso di 600 grammi; destano curiosità e stupore asce in pietra dura, di fine fattura. Ma c'è dell'altro: Schliemann, nel suo Diario, fece un inventario meticoloso del tesoro, comprendente decine di orecchini e fermagli e ben 8.750 piccoli anelli d'oro, prismi, bottoni, dati perforati, fibbie. Saliamo nelle sale superiori: fa un caldo da incubatrice, mitigato (si fa per dire) da patetici ventilatori domestici poggiati a terra. Le misure di sicurezza dei quadri del Perugino e di Rembrandt, di Rubens e di Van Dyck, di Matisse e di Picasso, sono appena un gradino più su di quelle riscontrate dall'Ermitage di San Pietroburgo. Perché va detto che all'Ermitage le tele del Beato Angelico, come pure quelle di Raffaello, Leonardo, Velasquez, Cézanne, Manet e di tanti altri impareggiabili artisti, sono pericolosamente esposte. Turbe di turisti, l'immancabile zainetto in spalla, si aggirano nelle varie sale, «sorvegliati» (si fa sempre per dire) da personale insufficiente. I quadri sono lì, sulle pareti, senza alcun sistema di allarme, alla portata di qualunque malintenzionato o esaltato e si avverte un brivido, pensando a un qualche irreparabile gesto. Se si ipotizza, come portato dei tempi, una «unica area culturale europea — dall'Atlantico agli Urali — sarà necessario pensare anche al patrimonio artistico russo: la mancanza di fondi non può, da sola, essere una giustificazione, anche se viene invocata a ogni piè sospinto dalle autorità russe.

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