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di MARIO BERNARDI GUARDI TUTTI sappiamo chi era Vittorio Metz.

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il babbo di una leva di «creativi», ma «creativi» sul serio: non balbettanti che se la tirano con due ideuzze in testa (qui, invece, si parla di Fellini, Maccari, Steno, Monicelli, Scola, scusatemi se è poco...); una firma tra le più brillanti del teatro di rivista, del cabaret, del cinema (buona parte dei classici di Totò portano l'«imprimatur» di Metz); uno di quegli umoristi che il riso (e anche il riso amaro) l'hanno nel sangue. L'umorista usa il fioretto, il coltellaccio rusticano o lo sciabolone come più gli aggrada: e se semina morti, le vittime designate ringrazino. Qualcuno ha messo il sale nella loro vita insipida: «gaudeant igitur», hanno scoperto la goliardia dei piani alti, il riso della libertà senza spocchia né volgarità, il piacere di chi, sbeffeggiato, impara l'arte di sbeffeggiare e non la mette da parte ma la esercita. Tutti sappiamo che Vittorio Metz, nato nel 1904, morto ottant'anni dopo, ha insegnato a tre o quattro generazioni il modo migliore per non perder gli incanti della vita, attivando il disincanto. Ma se la cioccolata (non un suo surrogato, si badi bene!), «aiuta», Metz dev'essere stato un gran cioccolato. Sappiamo tutti chi era. E sul rinato «Candido» di Giorgio Pisanò noi per la prima volta vedemmo anche la sua faccia. Ci apparve malinconica, lontana, come quel nome esotico. Ma poi Delfina Metz, figlia di tanto padre, e per ciò stesso simpaticamente esplosiva, ci ha fatto avere una caricatura di Vittorio, eseguita da un diciassettenne Walter Molino, nella redazione milanese del «Bertoldo». Il giovane Metz appare piegato sulla sua scrivania, come se volesse abbracciarselo tutto il sacro spazio del suo lavoro: «Metz sta creando, lasciatelo creare», recita il distico moliniano. E una fronte stempiata, piegata sull'invenzione, verifica se tutto è a posto. La virgola e la «vis». Comica, naturalmente. Benedetto Metz, anche qui non è che ti si veda molto bene. Ma ecco che, di nuovo grazie a Delfina, c'è capitato in mano un autoritratto di papà. Scritto, non disegnato. E con tutte le informazioni che ci occorrevano. Eccolo: «Un signore elegantissimo del bel volto pallido, dolce e severo nel tempo stesso». Può bastare? No, questo gran signore ha le mani bianche e sottili, e all'anulare della mano destra porta «un brillante del valore di almeno centomila sterline». Qualora interessasse sapere qualcosa sui suoi mezzi di trasporto, vi annunciamo che possiede «una lussuosissima vettura tirata da otto cavalli bianchi». Dove abita? Ovviamente in una «meravigliosa villa». Curiosi degli interni? Vi segnaliamo «un ampio vestibolo ornato di stupendi affreschi dei migliori pittori di tutte le scuole» e «un enorme salone dalle pareti ricoperte di ricchissimi arazzi». È qui che il nostro gentiluomo convoca un gruppo di ospiti singolari: il giovane Werther, Petronio Arbitro, Sandokan, D'Artagnan ed Enrico IV, per spiegar loro come e perché, insieme a tanti altri personaggi, essi si trovino, sottratti al loro tempo o magari all'eternità, nel suo ultimo libro: «Il Romanzo dei Romanzi» (Bietti, 1967). Insomma che ci fanno lì? Sono a disposizione dell'autorevole e autoritario arbitro dell'autore. E non possono sottrarsi alla sua tirannia. Tutto quel che fanno esce dalla sua penna. Provino a ribellarsi e avranno da mordere pane amaro. Dal momento che Vittorio ha la penna in mano e, potendo scrivere di qualunque cosa, a qualunque cosa può costringere i notissimi malcapitati. L'effervescente D'Artagnan non conosce altri padroni che il re di Francia e sdegnano snuda la spada, contro il Demiurgo Vittorio. E subito Metz getta acqua sui suoi bollenti ardori, scrivendo: «D'Artagnan vacillò impallidendo spaventosamente, e stramazzò al suolo svenuto». Detto, anzi scritto, e fatto. Ma tante ne dovranno accadere, con questi personaggi, tutt'altro che «in cerca d'autore» (ci sono anche l'Innominato, il Cavaliere di Grieux e Manon, i Due Derelitti, Angelica, l'Uomo che ride. Yanez e tanti altri), fatti scendere senza paracadute su una Milano mo

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