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I FUNERALI DI CIOTTI

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Per il saluto a Sandro tra tanti amici e colleghi anche Veltroni e Letta

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Sapevamo che l'inconfondibile voce di carta vetrata era diventata troppo flebile per raccontare e modulare gli accadimenti come nei bei tempi andati, ma pareva già prodigioso ritrovarne saltuariamente il timbro, o la traccia appena riconoscibile, dentro l'ultima radiofonia sempre avara di presenze significative. Voce che qualificava Sandro Ciotti, prima ancora d'intercettare i suoi itinerari, la cifra stilistica, gli eroi sottosopra, la sua facilità narrativa, il dono d'accompagnare l'ascoltatore dove lampeggiava l'avveninento. Voce amica per almeno cinque generazioni, che contribuì a rendere fondamentale la vecchia radio quando si poteva scoprire il mondo restando fermi in casa; quando notizie e approfondimenti puntualmente attendibili non venivano centrifugati dal martellamento mediatico di questi nostri giorni tecnologici. Però risulterebbe riduttivo catalogare e definire Sandro, mentre già misuriamo angosciati il vuoto che lascia nel giornalismo e fra gli amici. Artista versatile, scuola zavoliana quasi non bastasse la poetica eredità paterna, lui, figlioccio di Trilussa, seppe coniugare subito sintesi e sentimento, competenza sportiva e slanci critici, passione musicale e soprattutto voglia di conoscere appieno vizi e virtù dei suoi intervistati. Così ne derivarono migliaia di ritratti-Rai, inchieste, articoli, rubriche cinematografiche e libri-disco, che meriterebbero un riepilogo antologico davvero prezioso a beneficio dei giovani attratti dal mestiere. Poi, molti lustri di cronache calcistiche caratterizzate dal suo spessore culturale, in quella fioritura di campioni (da Carosio ad Ameri, da Ferretti a Caparezzi, da Viola a Martellini) che portarono al successo trasmissioni irripetibili e propedeutiche ai nostri sogni giovanili. Valente violinista e bravo anche al pianoforte, il maestro Ciotti preferiva ricordare i suoi trascorsi semiprofessionistici nell'illusorio ambiente laziale. E si piccava d'essere stato allievo del grande Flamini, cui attribuiva qualità didattiche rare dopo la gloria volata via. E si commiserava, particolareggiando su un gravissimo incidente che gli troncò la carriera, salvo prolungare invano le speranze nel decentramento di Forlì. Sottratto al football, benché spesso riproducesse lontane felicità in combattute partite di giornalisti pancioni e vecchie glorie. Sottratto alle emozioni agonistiche, per sbalordire cantori e fini dicitori durante stagioni memorabili, alle Olimpiadi e nelle rassegne euromondiali di quasi ogni specialità. Sempre pungente, calzante, ironico; e con una malcelata vena di romanticismo da esibire non appena capitava l'occasione giusta. Sempre documentato dal Giro e dal Tour, da San Siro e dal Maracanà, dai Festival sanremesi e da ovunque servissero i suoi estri, le sue idee, la singolare capacità di adeguare il racconto al mezzo utilizzato. Impossibile clonarlo. Impossibile preparare discepoli con altrettante corde creative, in questo Terzo Millennio dominato dal circo dei volgari, dei fanatici, degli orecchianti e degli improvvisatori. Certo, anche la televisione si accorse tardi del fuoriclasse dalla voce graffiata e gli affidò «La domenica sportiva». Certo, fu una delle scelte migliori per il programma istituzionale che intendeva recuperare i fasti legati a Tortora e Pigna. Perché davanti alle telecamere, Ciotti rimaneva sé stesso, cioé unico, cioè accattivante per originalità, musicalità e facilità espressiva. Prerogative che utilizzò ogni tanto nei campi più disparati: dalla regia alle canzoni; dai film dedicati a Cruyff e a Jordan fino alla collaborazione saltuaria con Fo, Jannacci, Bruno Martino e altri divi dello spettacolo, cui regalò l'opportunità d'intepretare testi non banali. Cesellatore e finto parsimonioso, capace in realtà di spendersi per chiunque dando retta al cuore. Come Sordi, Fiorentini e tutti gli angeli capitolini che immaginiamo lassù.

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