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di ALFREDO CATTABIANI RISCHIAMO di perdere una virtù che molti viaggiatori stranieri, dal Settecento ...

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Ma perché mai un sorriso rivolto a uno sconosciuto in un negozio, in un bar o in un ufficio, o un buongiorno caloroso oppure l'impegno a mettere a suo agio un forestiero capitato in un salotto dev'essere segno di servilismo o di ipocrisia? Predisporre l'animo altrui alla benevolenza e al buon umore è invece un atto di suprema civiltà e anche conveniente, come ci ricordano due proverbi: «La cortesia ci conserva gli amici» e «La cortesia ci procura amici e la verità cruda ci procura l'odio». La situazione va peggiorando di anno in anno perché si è quasi del tutto perduto il senso rituale che deve presiedere a ogni atto della vita e stiamo importando dalla Potenza imperiale, grazie soprattutto alla televisione, modi e comportamenti canaglieschi sulla scia di modelli di comportamento impersonati dai protagonisti di una sgangherata vita mondana, mentre una volta erano gli ambienti aristocratici e dell'alta borghesia ad essere il modello al quale cercava di uniformarsi, talvolta fino alla caricatura, chi desiderava una promozione sociale. D'altronde, quando vi è chi della scortesia fa remunerata professione nella vita pubblica e privata, sugli schermi televisivi e nei giornali, ottenendo successo e denaro, diventa difficile arginare questo fiume di maleducazione nel comportamento dei più giovani. La scortesia alligna anche fra le persone che pensano di esserne immuni, come il depositario di un piccolo o grande potere (giornalistico, politico, economico) che non risponde a lettere e telefonate dei non-potenti né si preoccupa di delegarvi i suoi collaboratori perché la sua massima plebea raccomanda: «Non perder tempo per chi non è utile in questo momento». Nell'antichità la cortesia era chiamata in vari modi: urbanitas, civilitas, humanitas. Urbanitas perché si contrapponeva alla rozzezza e alla ruvidezza del «villano», di colui che abitava nella villa; civilitas per sottolineare che l'affabilità era tipica del «civis» consapevole della sua dignità di cittadino romano; e infine humanitas, che ci sembra il termine latino più felice per definire quell'intreccio di amabilità, benevolenza, educazione, cultura, dolcezza, educazione di colui che dal medioevo venne chiamato «cortese» (da corte) e di cui ci ha dato un ritratto compiuto nel Cinquecento Baldesar Castiglione con «Il libro del Cortegiano», ripubblicato ora da Einaudi con un saggio introduttivo di Walter Barberis. La cortesia infatti non consiste semplicemente nelle buone maniere. È qualcosa di più profondo, come mi ricordò in seconda media un padre gesuita. Nell'atrio della scuola torinese, che si trovava vicino all'arsenale sabaudo, campeggiavano due imponenti cornici di legno, sovrastate dalle scritte «Albo dell'istruzione» e «Albo dell'educazione». Ogni mese incorniciavano i nomi, scritti in bella calligrafia floreale, di quegli allievi che si erano distinti nei due campi perché la buona educazione era considerata dai padri gesuiti pari alla istruzione. «Perché non limitarsi a segnalare la buona condotta, come nelle pagelle?», obiettai un giorno al padre Censore, che aveva il compito di fare rispettare la disciplina e compilava quegli albi. «Perché - mi rispose enigmaticamente - la buona creanza, come ha scritto san Vincenzo de Paoli, è metà della santità, e prima di lui san Francesco de Sales ha detto: 'La santità è compitezza consacrata'». Fui sconcertato da quella criptica definizione; finché un giorno, durante la ricreazione, volli riprendere il discorso. « Vedi - mi rispose il padre Censore - per diventare una persona cortese è necessario un primo fondamentale passo. Controllare le proprie pulsioni: sicché un'aurea regola comanda che tutti i gesti e i comportamenti che turbino l'armonia interiore vengano banditi; e insegna anche massime come: 'Commiserarsi è infame', 'Compiacersi di aver ragione è odioso', 'Avere troppa coscienza di se stessi è sgradevole'». Quell

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