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di MARIO BERNARDI GUARDI SI CHIAMA Arturo: come la stella più luminosa della costellazione ...

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Anche il nostro ragazzo ha la sua isola. Non immersa nelle brume celtiche, ma nella luminosità mediterranea. È nato e cresciuto a Procida, Arturo Gerace: e quando, ormai lontano, ne rievocherà il fascinoso incanto, allo sguardo della memoria balzeranno campagne e colline, muri antichi e straducce solitarie, frutteti e vigneti, spiagge dalla sabbia chiara ed irte scogliere, rocce torreggianti e gabbiani. A Procida Arturo vive la sua favola. Qui pascolano i suoi anni selvaggi di bambino. La madre (nel ritratto, gelosamente custodito, appare poco più che una ragazzina: vorrebbe darsi un contegno da adulta, ma ha la faccia piena di infantile curiosità) è morta nel darlo alla luce. E lui venera l'immagine di quella femminella analfabeta» che ai suoi occhi è una «sovrana». Arturo «è stato il potere e la violenza del suo destino», ma lei vive in lui. A vicenda si consolano, si trasmettono calore. Arturo le parla e la sua voce si confonde con quella di Elsa Morante (nella foto), autrice di uno dei «romanzi di formazione» più delicati, intensi e struggenti della letteratura italiana («L'isola di Arturo», Premio Strega 1957). Probabilmente ha visto giusto chi ha colto nel ragazzo il profilo di un figlio che non ci fu. Un sogno intatto in una tumultuosa vita affettiva, che vide Elsa legata a Moravia per più di vent'anni. Celebrato nel 1941 nella Chiesa del Gesù (Elsa, figlia di una maestra elementare ebrea, era una fervente cattolica), il matrimonio resse tra mille difficoltà fino al 1962. Quando si consumò lo strappo, seguito da travagli, amarezze, momenti di cupa depressione. Un sogno che si chiama Arturo? La Morante respira con lui, gode di quella infinita libertà bambina. Puledro che ignora il morso, Arturo scorrazza nel suo regno: l'isola. Splendida e ancora selvaggia: gli abitanti, gelosi di questo tesoro segreto, guardano i forestieri con scontrosa diffidenza. In questa solitudine verde e azzurra, Arturo si sente un re. Mezzo tedesco e mezzo meridionale, il padre. Wilhelm Gerace, è spesso assente, e il ragazzo vive beato tra spiagge e scogliere. Ha anche una reggia: un vecchio palazzo a due piani. Spazio sacro, prima: la sede di un convento di frati. Poi, profano e ambiguo: gli isolani cominciano a chiamarlo «la casa dei guaglioni», dal momento in cui diviene la residenza di un ricco spedizioniere. Romeo l'Amalfitano, conquistato dalle bellezze di Procida. Qui, infatti, si svolgono feste, in maschera e in costume, rigorosamente interdette alle donne. Anni dopo, «la casa dei guaglioni» si spalanca dinnanzi a Wilhelm, quando il ragazzo sbarca sull'isola. Figlio di un emigrante procidano e di una maestrina tedesca, arriva lì, dopo la morte della madre, carico di rancori e il padre non riesce a domare quel giovane biondo, bello e sprezzante. È a lui che l'Amalfitano, ormai vecchio e cieco, consacra un torbido, tirannico affetto. Lasciandogli in eredità la malfamata «reggia». Ma tutto ignora Arturo. Ha il suo altare dei morti, devotamente consacrato alla mamma-bambina. Ha il suo palazzo, pieno di disordine e di sporcizia. Ha addirittura un servitore, il rozzo e taciturno Costante, che gli prepara da mangiare. Ed ha un padre, che appare all'improvviso e scompare per lunghi periodi. Quando c'è, comunque, riempie le sue giornate, vagabonda per l'isola insieme al figlio, è il suo eroe. «Avanza risoluto, come una vela nel vento», i capelli biondi scompigliati, gli occhi di un turchino violaceo, l'aria sprezzante; dietro di lui, adorante, Arturo, con i capelli neri e ricciuti come quelli di uno zingaro. Adora, perché non sa. Il padre gli ha portato un giorno una nuova mamma: una ragazzina di sedici anni, e lui l'ha odiata tempestosamente, fino a che i sensi hanno scatenato altre tempeste.

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