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di GIAN LUIGI RONDI BARAN, di Majid Majidi, con Hossein Abedini, Mohammadd Reza Naji, ...

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Purtroppo nelle sale italiane si comincia a conoscerlo con il film di oggi mentre, in dieci anni, ha realizzato altri quattro film tutti premiati nei principali festival in Occidente. Il suo stile è il realismo, la sua ispirazione è la poesia, sorpresa all'interno di psicologie analizzate con finezza, senza mai accenti di troppo. Le psicologie principali, questa volta, sono quelle di un ragazzetto iraniano, Lateef, che lavora in un cantiere, avendo come suo compito, data la sua età, solo quello di portare il tè a ora fissa agli operai. In quel cantiere, però, ci sono molti afgani clandestini sfuggiti alle persecuzioni dei talebani ancora al potere. Tra questi c'è un altro ragazzino, fragile e minuto, Rahmat, al quale, risultato presto inadatto ai lavori pesanti, viene affidato l'incarico più tranquillo svolto da Lateef e in quella circostanza Lateef scopre che Rahmat è invece Baran, una ragazzina afgana che si nasconde lì in abiti maschili per tirare avanti. Di colpo Lateef se ne innamora e si sacrificherà per lei e per la sua povera famiglia, pur non dicendole mai una parola. Fino al giorno in cui Baran troverà modo di rimpatriare con i suoi, aiutati in segreto da Lateef, e riprenderà il suo aspetto femminile. Al momento però di congedarsi da Lateef, avendo capito tutto, si coprirà il viso con il burka. Sempre muta. Un amore fatto solo di sguardi, e vissuto, soprattutto a distanza, dal ragazzo. Attorno il cantiere, il lavoro duro, la vita disagiata e sempre a rischio di quei profughi. Con immagini asciutte, volutamente polverose, sempre attraversate da facce vere, in cornici autentiche. Una cronaca, certo, ma anche un'elegia. Di un lirismo assoluto. E figurativamente perfetta.

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