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di MARIO BERNARDI GUARDI «PER gli intellettuali degli anni '60 e '70, Buzzati è un autore ...

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E davvero tutto torna, se consideriamo che lo scrittore bellunese muore il 28 gennaio 1972, in un periodo di tempo nel quale esser borghese equivaleva a far parte della mala compagnia dei padroni e dei fascisti. Gentaccia che, a dirla con gli slogan urlati nei cortei, aveva di fronte a sé pochi mesi di vita. la progressiste spranghe giustiziere avevano cominciato a far i conti con tutti quelli che si ostinavano a restar fuori dalla storia: e Buzzati abitava a Milano, da una trentina d'anni prestigioso giornalista del «Corriere». Dino aveva un'aria signorilmente distaccata: figuriamoci se era tipo da conceder qualcosa alla demagogia «sinistrese», che vedeva tanti intellettuali «in affanno», al fine di ottenere una patente laica, democratica e antifascista dai Signori della Contestazione. Lui ci pensava proprio: e in calce ai manifesti «politicamente corretti» era vano andare a cercare la sua firma. Eccome se era fuori dalla storia: del resto, cominciava a prender congedo dalla vita, dacché un male misterioso gli si era annidato dentro e lo corrodeva. Bisognava andarsene, e far presto da quella Milano tetra, bieca, ostile, che gli dava tante amarezze, e chi gli faceva pensare d'essere stato un buon profeta quando, anni e anni prima, aveva scritto un racconto, «Paura alla Scala», che vedeva la città avvilirsi pavida dinnanzi ai «Morzi», una specie di setta di fanatici che conquistava la città più per la viltà di chi avrebbe dovuto difenderla che per merito proprio. Andarsene, dunque, il prima possibile. Certo sarebbe stato bello farlo con lo stile di un Angustina, il nobile tenente che aspetta lo scontro con i Tartari che non arrivano e riesce comunque a sacrificarsi, in nome del Re e dell'onore, giocando a carte impassibile sotto una tormenta di neve. Non c'è una battaglia, non scorre sangue: la contesa riguarda una correzione di confine. Ma Angustina, correndo dietro il suo sogno di gloria, non è disposto a cedere: i «nemici» se ne stanno al riparo nelle grotte montane? E lui non dà loro soddisfazione: stanco, malato, resta «fuori», al freddo che gela le ossa. Cosa sono due fiocchi di neve per un soldato? Buzzati, che aveva l'aspetto di un ufficiale absburgico e che della vita militare amava le immagini e l'«immaginario», è solidale con lui, così come un'infinita tenerezza mostra nei confronti del suo eroe, Giovanni Drogo. Povero Giovanni! Per decenni ha atteso, alla Fortezza Bastiani, l'arrivo dei Tartari e l'eroico cimento: niente, nessun duello, nessuna medaglia guadagnata sul campo. E il tempo passa e lui è diventato vecchio e del vecchio ha tutti gli acciacchi. I Tartari arrivano, però, e finalmente gridano gioiose le trombe di guerra: ma lui, appunto, non è che un povero vecchio, non può certo combattere in quelle condizioni, sarebbe un peso per gli altri, deve andarsene. Se ne va, col cuore lacerato e tanta pena addosso: ma anche lui, «derubato» dalla vita, trova un'occasione di rivincita, fa scattare la molla della dignità. Morendo «bene» nella stanza di una locanda, lontana dal campo di battaglia. È solo, nessuno lo vede. Ma lei, la Morte, sì: e di sicuro si accorge che quel vecchio che l'attende, nella sua divisa linda e ordinata, è un buon soldato. «Il Deserto dei Tartari», Buzzati lo scrisse nel 1940 proprio per i «buoni soldati». Quelli che la vita può estenuare, sfibrare, logorare nell'attesa: tanto da far loro credere che tutto sia stato inutile ed obbedienza, dignità, onore solo povere parole. E può anche darsi che sia così, che la gloria sia un'illusione al pari della bellezza e della giovinezza. Il paradosso buzzantino è che questa è una ragione in più per «non» arrendersi: la vita non è mai buttata via, se, sia pure in mezzo a un crescente malessere, restiamo fedeli al nostro «stile».

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