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«L'unico strumento per configurare il tempo è l'intreccio narrativo, capace di tenere insieme il tempo dell'anima e quello cosmologico»

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L'autore delle «Confessioni», tuttavia, sapeva bene che quello scrigno nel quale si conservano le tracce delle impressioni sensibili e delle cognizioni intellettuali non sarebbe tale se non fosse costantemente minacciato dall'oblio: la memoria è quel luogo dell'anima dove è conservato quel che non è ancora stato corroso dal tempo. È su questa corda tesa tra memoria e oblio che cammina Paul Ricoeur, straordinario equilibrista del pensiero, nel saggio «La memoria, la storia, l'oblio» (Raffaello Cortina, 741 pagine, 39.50 euro). Se in «Tempo e racconto» il pensatore francese aveva indagato le stesse aporie della temporalità che tormentavano Sant'Agostino - come posso parlare del tempo se il futuro non è ancora, il passato non è più e il presente non dura che un istante? - concludendo come l'unico strumento per configurare il tempo fosse l'intreccio narrativo, capace di tenere insieme tempo dell'anima e tempo cosmologico, questa volta Ricoeur si confronta con un'altra aporia, quella della storia e della sua pretesa di tenere fede a qualcosa che, come il ricordo, si manifesta solo come immagine di qualcosa che non esiste se non nelle tracce che ha lasciato dietro di sé nel suo rapido transitare dal presente al passato. Professor Ricoeur, cos'è la memoria? «La memoria è un enigma, perché enigmatico è in primo luogo il suo oggetto: il ricordo è un'immagine che si offre a partire dalla sua assenza, dal suo essere stata presente in un altro tempo. La memoria, tuttavia, non è solo la mira di un evento passato nella traccia che esso ha lasciato in noi, ma è anche qualcosa che appartiene propriamente a colui che "si ricorda". La memoria è anzitutto la mia, i miei ricordi mi appartengono. In virtù di un meccanismo di simpatia, poi, noi siamo portati ad attribuire la proprietà dei propri ricordi anche a coloro che manifestano di possederne di simili. Via via assegniamo dunque la memoria a tutti i soggetti grammaticali: io, tu, egli, noi. Senza dimenticare l'anonimo "si". Così si forma la memoria collettiva». Proprio sulla memoria collettiva s'innesta la questione cruciale del suo libro: il rapporto tra memoria e storia. Quand'è che il racconto dei testimoni oculari, dei singoli "ricordanti", si trasforma in storia? «Quando viene messo per iscritto. La nascita della scrittura, intesa come inscrizione dell'esperienza umana su un supporto materiale - sia esso papiro, pergamena o hard disk - segna l'inizio di un processo di affrancamento della storia dalla memoria, un processo che, come ha notato Michel de Certau, si articola in tre stadi: lo stadio documentario, in cui si passa dall'oralità della memoria al suo essere affidata a una traccia materiale e tangibile; lo stadio della spiegazione-comprensione, in cui agli eventi storici vengono applicate categorie universali come quella di causalità; e lo stadio della scrittura letteraria, in cui la storia viene sottoposta a un'interpretazione. Ognuno di questi stadi segna l'allontanamento di un grado dello storico dalla fedeltà alla memoria, in direzione della verità della storia». Può esservi contraddizione tra verità storica e fedeltà alla memoria? «L'operazione storiografica dev'essere valutata in termini di verità nella rappresentazione del passato, non in termini di moralità. Come potremmo dare dei giudizi di valore su fatti di cui non avessimo prima di tutto confermato l'autenticità? Lo storico non è tenuto a emanare sentenze: il suo campo d'azione è quello della comprensione, della discussione e della controversia, non quello dell'esaltazione o dell'esecrazione». Eppure lei una volta ha scritto che la storia delle vittime pretende di essere raccontata. «Lo penso ancora. Lo storico non può eludere il dovere della memoria, di cui si

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