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di MARIO BERNARDI GUARDI SE SI GUARDANO le antologie scolastiche, è difficile trovar riservato ...

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Neppure un brano di uno dei tanti libri che il "maledetto toscano", ma si chiamava Kurt Suckert, tedesco per parte di padre, lombardo per quella di madre — scrisse nella sua non lunga vita (nacque a Prato nel 1898, morì a Roma nel 1957). Eppure Malaparte è stato uno dei protagonisti delle battaglie culturali novecentesche. Eppure è stato uno scrittore e un personaggio di vasta popolarità. Eppure, anche a voler mandare al rogo tutti i suoi libri (i "padroni del pensiero" progressisti non ancora andati in pensione), ce n'è almeno uno che non solo dovrebbe esser salvato, ma fatto leggere a tutti gli studenti. Come documento della guerra e della guerra civile, rielaborato dall'estro creativo di un narratore di razza. Parliamo della «Pelle». C'è da scommettere che siano pochissimi i liceali che lo hanno letto o che almeno ne hanno sentito parlare. Probabilmente Malaparte paga la colpa di essere "antipatico". Perché era alto, bello, elegante; sapeva credere, obbedire e combattere, ma anche dibattere, polemizzare, trasgredire; faceva l'amore e la guerra, conquistava i palazzi e i salotti, viveva avventure e disavventure mantenendo inalterato lo spirito del Narciso provocatore e beffardo. Antipatico, antipaticissimo. Ovviamente non a tutti. Ad esempio, l'effervescente Pietrangelo Buttafuoco, nella prefazione a una raccolta di malapartiane scorribande da qualche mese in libreria («Donna come me», Vallecchi), ne parla con evidente «corrispondenza d'amorosi sensi». Ma non basta. La riscoperta di Malaparte va affidata a un costante, militante impegno in primis, leggere, rileggere, diffondere «La pelle». Il romanzo esce nel 1949. Avrebbe dovuto essere intitolato «La peste», ma c'era già l'opera di Camus, pubblicata due anni prima. Romanzo, dicevamo. Ma è dir troppo poco: perché questo libro è tessuto di cronaca e di poesia, di descrizioni realisticamente atroci e di altre dove la fantasia gioca con gli incubi e le deformazioni grottesche, di pathos lirico e di una vera e propria orgia di compiaciute preziosità letterarie, di disperato disincanto e di schietta, umanissima commozione. Poi, è una storia "vissuta", al di là di quel che lo scrittore può averci aggiunto in termini di esuberanza inventiva. Non l'avesse fatto, non sarebbe stato Malaparte, fascinoso e barocco per sincera vocazione e ben studiata scelta. Cosa racconta «La pelle»? Verrebbe da rispondere, richiamandoci al titolo che Malaparte avrebbe preferito: un viaggio nella "nostra" peste. La peste di un'Italia che ha perduto male la guerra e in cui sciamano trionfanti gli alleati. Ai napoletani è toccato l'onore di essere liberati per primi e loro dopo tre anni di fame, di epidemie, di bombardamenti, «hanno accettato di buona grazia, per carità di patria, l'agognata e invidiata gloria di recitare la parte di un popolo vinto, di cantare, batter le mani, saltare di gioia fra le rovine delle loro case, sventolare bandiere straniere, fino al giorno innanzi nemiche, e gettar dalle finestre fiori sui vincitori». Dappertutto festa e dappertutto corruzione e degrado. Sciuscià, prostitute, bimbi e bimbe venduti ai soldati marocchini, indiani, algerini, malgasci. Malaparte non ci risparmia inferni. La pelle è quella piena di piaghe e di bubboni dell'Italia appestata. Pochi si salvano. Malaparte, fascista eretico e poi antifascista, ha seguito come ufficiale di collegamento le truppe alleate verso il Nord. Descrive, trasforma, deforma. Prosa fastosa e grottesca, lugubri gioielli, preziose morbosità. Ma tutto diventa nitido, rigorosamente pulito e pudico, nelle pagine dedicate ai giovani fascisti che, seduti sui gradini di Santa Maria Novella, a Firenze, aspettano di essere fucilati dai partigiani. Ragazzi di quindici, sedici anni. Hanno sparato dai tetti su partigiani e liberatori: non possono essere risparmiati. Tra tanti «sommersi», questi adolescenti della "parte sbagliata" sono, forse, gli unici ad essere salvati dalla pietas del cronista.

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