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Brutto giorno per Eric a Manhattan

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Miliardario, ottimista. Ma quel mattino ha troppi intoppi e sfuma l'affareOltreoceano è già best seller L'autore crea un clima sospeso, che mette in apnea il protagonista. Come in una premonizione delle Due Torri Evocativo e scarno lo

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Scrittore da sempre calato nella realtà contestuale del suo tempo, conoscitore fin dagli esordi di tutto quanto si cela e si disvela fra i grattacieli di Manhattan, Don DeLillo trasferisce ora tutte le sue pulsioni, sempre molto lucide e veridiche, dalla teoria alla prassi, e pone a confronto, in questo suo nuovo romanzo Cosmopolis, che sta trionfando negli States e uguale destino sembra avere in Occidente, anche in Italia dove sta per comparire per i tipi di Einaudi, due realtà della quotidiano, quella in movimento di un ventottenne miliardario che esce dalla sua casa monumentale per andare a concludere un affare di gigantesche proporzioni, e la statuaria fissità della metropoli che sta svegliandosi dal sonno notturno e si prepara a vivere l'avventura giornaliera di Wall Street, ombelico del mondo, centro motore della sopravvivenza stessa dell'individuo. DeLillo, in questo caso, è il segugio che tampina la vittima designata, ne studia le mosse e i comportamenti, ne intuisce la strategia, chiudendolo nella morsa dell'unità di tempo, di luogo e d'azione di aristotelica memoria, al fine astuto di scoprire tutto quanto sembra naturale e spontaneo, e tale non è perché il tarlo dell'illusione del benessere pare dominare in una condizione di torpore che sembra evocare alla mente lo spettro del 1929, al tempo della Grande Depressione, che colse l'America come addormentata e inerte. La giornata di Eric, il miliardario gestore di una enorme catena di investimenti, si apre un mattino dell'aprile 2000, proprio nel tempo storico carico di ottimismo della fine anni Novanta, allorquando dominavano il mercato tutte quelle multinazionali che finiranno poi nel mirino di una dura contestazione mondiale. Il mito contemplativo dei propri dollari che compariva sul display era oltremodo rassicurante, e neppure contemplava l'ipotesi di una guerra, di un crollo, di un fallimento, di un così abnorme eccesso nelle spese militari. DeLillo, va detto, coglie magistralmente questo momento aspro di realtà sospesa a mezz'aria, fra il certo e l'incerto, e comunque nella prospettiva fittizia di un roseo futuro economico. Eric sta per concludere un colossale affare nei confronti dello yen, e questo lo carica strategicamente: si è lasciato alle spalle una casa sontuosa di quarantotto stanze nell'East Side, si sta dirigendo al lato opposto del luogo dell'affare, perché il solito barbiere dovrà rendere la sua testa al massimo della presentabilità. Ha una limousine lunga come un carro funebre, di quelle che è facile incontrare a Manhattan, pavimento di marmo carrarese e tanto di monitor per navigare a vista nel mare tempestoso di Wall Street. Via via che procede, incontra a sbarrargli il passo le interferenze della Storia, il presidente degli States in corteo, una ventata di no global, il funerale di un rap di successo passato a miglior vita. Fa così in tempo ad assistere, una sosta dopo l'altra, alla nascita, al vivere e al morire della più ingannevole delle stagioni umane, quella della società opulenta trafitta dall'eccesso di profitto, si perdoni il bisticcio linguistico, ma DeLillo lo rende alla perfezione. Sembra comparire l'ombra di Michael Douglas, pronto a interpretare un film di questo genere, ne ha la faccia e il comportamento, c'è da giurarci. Lo asseconda la scrittura scarna ed essenziale del romanziere più in voga nell'America di oggi, capace di descrivere i mutamenti e le involuzioni di un personaggio già in crisi prima della tragedia dell'11 settembre, che procede come un automa fra il cemento dei grattacieli, e vede disfarsi un mito, una consistenza nella q

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