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di MARIO BERNARDI GUARDI ITALO Svevo pubblica «La coscienza di Zeno» nel 1923.

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Si è sposato con la ricca cugina Livia Veneziani, è diventato padre di una bambina, Letizia, è entrato nell'azienda dei suoceri, abbandonando il suo impiego presso la filiale triestina della banca Union di Vienna, ha fatto molti viaggi in Francia e in Inghilterra, rivelando di possedere un acuto senso degli affari. È tutt'altro che un inetto dal punto di vista pratico, Aron Hector Schmitz (questo, il vero nome dello scrittore triestino, di ceppo ebraico sia per parte paterna che materna: lo pseudonimo Italo Svevo compare col suo primo romanzo ed è un richiamo alle origini germaniche e alla scelta non solo italiana ma irredentista, visto che Aron Hector è cittadino dell'impero absburgico) e dunque non assomiglia - o non assomiglia più - all'Alfonso Nitti di «Una vita» e all'Emilio Brentani di «Senilità». Due antieroi che esprimono la loro insofferenza al mondo borghese con un atteggiamento velleitario e mistificatorio, prigionieri di una rete di autoinganni, illusioni, generici impulsi di rivolta. Ma il destino è quello della sconfitta, forse oscuramente desiderata, quasi ci fosse una segreta, inconfessata vocazione masochistica. Certo è che inerzia e frustrazione, abulia e accidia, con contorno di palpiti, fremiti e vani sogni di riscatto, sembrano essere la "condizione" dei primi personaggi di Svevo. Sono autobiografici? Indubbiamente, nei loro caratteri e nelle loro vicende entra qualcosa della vita di Svevo, della sua amarezza di borghese declassato, al momento in cui la famiglia si è trovata in cattive acque per gli errati investimenti paterni e lui è stato costretto ad impiegarsi: ma ci sono anche forti echi letterari, c'è la ferocia naturalistica di chi ha letto Balzac, Zola e Flaubert, c'è una volontà di smascherare le menzogne idealistiche, che rimanda a Schopenhauer e a Nietzsche, e ci sono anche le immagini darwiniane della "lotta per la vita", con i deboli schiacciati dalla selezione naturale. E Zeno? Si potrebbe ipotizzare che nasca da un confronto dialettico tra l'imprenditore di successo Schmitz, entrato in pieno contatto con la modernità della produzione, del consumo, del mercato e l'intellettuale Svevo che, pur non pubblicando per anni, ha continuato a scrivere "per sè" come utile esercizio conoscitivo. Intanto, con la Prima Guerra Mondiale tutto è stato travolto da un turbine di fuoco: si è chiusa un'epoca, la Mitteleuropa è andata in frantumi, politica e letteratura sperimentano vie rivoluzionarie. Svevo capisce che Zeno deve parlare con un'altra voce perché ha altre cose da raccontare. Certo, Freud con la psicanalisi, Joyce con flusso di coscienza hanno il loro peso e sul personaggio e sul linguaggio. Ma c'è qualcosa di più antico. C'è, come qualcuno ha lucidamente colto, un'arma recuperata nel sottosuolo atavico, nelle radici ebraiche. L'ironia. Quella, peraltro già affilata negli scenari opachi e malsani delle storie precedenti, con cui Zeno si difende dall'assalto della realtà, agli altri, da se stesso. Dai ricordi che deve sottoporre ad analisi, dall'analisi a cui si sente sottoposto. Dalla possibilità di chiudersi in uno schema consolatorio/assolutorio, da ogni irrigidimento in una posizione ideologica netta e definita, da ogni dispersione o esibizione di sé. Raccontandosi attraverso la psicanalisi, Zeno la esorcizza: non è un assoluto filosofico e/o scientifico, non è un miracolo, non ha la chiave d'accesso al mistero dell'uomo, che è un mistero con tanti aspetti buffi e ridicoli. Gli psicanalisti, poi, non sono davvero dei padreterni, ma uomini (borghesi?) piccoli piccoli, tanto vanitosi quanto rancorosi. Guariamo "grazie" ai medici e "contro" i medici. Se guariamo davvero. Ma non vale la pena di prendersela: «La vita non è né bella né brutta,ma originale».

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