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Il bilancio del «Progetto Pollini» No della società alla musica d'oggi

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Chi scrive, invece, non è punto soddisfatto. I sette concerti cameristici intesi a percorrere in estrema sintesi la storia della musica occidentale, dal secolo decimo sesto al presente, ogni volta mescolando stili ed autori i piú rimoti tra loro, e ponendo in special modo l'accento sulla musica d'avanguardia del secondo Novecento, hanno avuto lo scopo, provocatorio dogmatico illiberale, di mostrare la presunta eccellenza poetica del linguaggio musicale dei nostri giorni. Accostando Stockhausen a Beethoven, Ligeti a Brahms, Kurtág a Monteverdi, etc... Pollini c'ha detto che tutti gli autori proposti posseggono un'eguale artisticità: le differenze sarebbero soltanto di carattere storico e formale, non già sostanziale sotto il profilo del valore estetico. Ogni epoca avrebbe i suoi proprî capolavori, ed i propri linguaggî parimenti validi. I nostri musicofili non sanno capire né apprezzare né amare le opere contemporanee perché non assueti ad ascoltarle. A tal fine Pollini le propone; a tal fine il succitato «Progetto». Negli andati giorni un qual pubblico è in vero accorso al Nuovo Auditorium quirite per ascoltare i complessi strumentali capitanati dal grande pianista - ormai un mito - e non già i presunti «capolavori» del tardo secolo ventesimo. Ché se i medesimi fossero stati propinati da un bigio crocchio di pifferai, non v'ha dubbio che le poltrone sarebbe presso che rimaste diserte, o sia premute qua e là dall'appennicata fazione di sodali e congiunti del musicante di turno: siccome suole. La musica contemporanea non è amata: non perché poco eseguita ed incompresa ma perché oggettivamente sgradevole e molesta. Su quale criterio di gusto, su quale metro di giudizio estetico si fonda l'asserzione di Pollini: essere quelli di Nono e Berio esiti d'arte degni delle opere di un Vivaldi o di un Rossini? L'unica spiegazione risiede nella persuasione del pianista milanese che ogni età vanta corruschi monumenti artistici. Ma allora: quali sarebbero, ad esempio, i capolavori del Settecento pittorico nederlandese e fiammingo degni di Rubens e di Rembrandt? e quali drammaturghi del Medioevo greco appropriati al genio di Eschilo, Sofocle ed Euripide?.... Nel sempreterno andirivieni della Storia s'alternano esaltazioni e disperazioni, fulgori e penombre: non differentemente occorre agli uomini ed alle loro esistenze: massime all'arte loro. Si dànno epoche aride di Bellezza. Fra le quali si contempla la nostra, la cui arte patisce la mancanza di misura, il disequilibrio delle parti costitutive, l'assenza d'una proporzione canonica, e del nitore della forma, e dell'icasticità perentoria del segno linguistico. Dopo i fasti del pensiero romantico idealistico ove, per un sentimento d'onnipotenza, l'Io postulava d'esser il centro della realtà, della natura e dell'universo, abbiamo assistito ad uno smacco ferale: mai verificatosi nelle età precedenti. L'arte del Novecento infatti addita esattamente la miseranda dissoluzione di quell'Io utopico, vittima d'un'ingenua supponenza (chi non ricorda l'«Ich bin Ich», io sono io, di fichtiana memoria?). Ed insieme all'Io l'espressione ed i contenuti poetici annessi. La musica contemporanea è landa brumosa, terreno inferace donde sorte non pianta ma sterpo: non canto di pathos fantastico ma afasia gesticolante e reificata. Non a torto è stato da taluno osservato come la musica del presente sia un'arte esaurita dalla storia e, nel contempo, un prodotto escogitato dall'industria e, perciò, traslocato dal tempio al mercato. Un prodotto rivolto al pubblico che non lo intende e lo consuma in spicchi minimi con spilluzzicante svogliatezza. Sempre che a pòrgerglieli sia uno non meno prode di San Pollini l'Esegeta.

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