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CONFESSO di non aver tenuto mai in molta considerazione i responsi degli Oscar, nonostante il frastuono ...

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sono diventati così un imponente massa di manovra in cui i più disparati interessi, le pressioni, le lusinghe riescono puntualmente ad ottenere i risultati voluti che corrispondono di rado ai veri meriti. Quest'anno, invece, a giudicare almeno dagli Oscar più significativi, direi che i meriti siano riusciti quasi tutti a prevalere. Cominciando con il miglior film, «Chicago»: un musical costruito in modo del tutto originale, un grande spettacolo ma anche uno spettacolo intelligente. Continuando poi con il miglior regista che è stato dichiarato Roman Polanski per il suo splendido, coinvolgente e sconvolgente «Pianista». Mentre per la migliore sceneggiatura ha vinto Pedro Almodóvar per «Parla con lei», uno dei film meglio costruiti che si siano visti nella scorsa stagione. «Il pianista» (anche qui molto giustamente) è stato citato di nuovo per l'Oscar al suo dilaniato protagonista Adrien Brody, e abbastanza meritato è stato anche l'Oscar per la migliore attrice a Nicole Kidman, una delle tre protagoniste di «The Hours». La più felice, nel trio, era Meryl Streep, ma non era stata inserita nella cinquina delle attrici e, fra le altre candidate (Selma Hayek per «Frida», Diane Lane per «L'amore infedele», e Julianne Moore per «Lontano dal Paradiso», Renée Zellweger per «Chicago»), Nicole Kidman, in quella sua rivisitazione esemplare del personaggio di Virginia Woolf, era di sicuro la più meritevole. Come lo era Catherine Zeta-Jones vincitrice, con la sua interpretazione in «Chicago», dell'Oscar per la migliore attrice non protagonista. Un solo rammarico. Ancora una volta nessun Oscar italiano, mentre i nostri Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo avrebbero dovuto vincere grazie alle loro scenografie per «Gang of New York» che rappresentavano di certo uno dei pochi valori reali di quel film. E, per chiudere, una sorpresa, l'Oscar per il migliore documentario a «Bowling a Columbine», del grande contestatore Michael Moore, analista spesso impietoso dei guasti di una certa società americana. L'Academy di Hollywood, di solito, non dà prova di coraggio. Questa volta ha rasentato l'audacia. Per di più in una occasione in cui due suoi Oscar fra i più importanti — la regia e la sceneggiatura li ha assegnati a dei non americani.

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