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Oscar, cerimonia condizionata dall'incubo guerra

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L'esplosione del conflitto in Iraq proprio in coincidenza con la data già da tempo fissata per la notte più importante del cinema americano ha obbligato la Academy a prendere una decisione difficile. Annullare o anche solo rinviare la cerimonia (è già successo tre volte in passato ma mai per eventi bellici) avrebbe comportato conseguenze devastanti sul piano finanziario per la Academy, che deve quasi tutte le sue entrate al rito annuale delle famose statuette. La sola ABC paga oltre 40 milioni di dollari ogni anno alla Academy per i diritti di ripresa in esclusiva della cerimonia degli Oscar (che raccoglie oltre 40 milioni di americani davanti allo schermo). Ma restare indifferenti mentre il paese è in guerra, mentre i soldati americani muoiono nel deserto dell'Iraq, mentre le immagini della Tv portano in ogni casa i combattimenti in diretta con scene in grado di competere con «Salvate il Soldato Ryan» o «Il Generale Patton», non era una opzione attuabile per gli Oscar. La decisione finale è stata un capolavoro di furbizia. «Lo spettacolo va avanti» (ed i guadagni della cerimonia non vengono toccati) ma con un capro espiatorio: la pedana rossa. Per la prima vola nei 75 anni di storia degli Oscar i divi del cinema sono entrati nel luogo della cerimonia quasi di soppiatto, quasi vergognandosi di quello che stanno facendo, senza fotografi ad immortalare con scariche di lampi gli abiti spettacolari e supersexy delle attrici, senza fans ad urlare in coro i nomi degli idoli del momento, senza giornalisti a porre domande frivole e spesso sciocche alle stelle in paziente attesa sulla pedana più celebre del mondo. Una soluzione furba che ha permesso alla maggior parte degli attori di sottrarsi alla inevitabile domanda sul loro giudizio sulla guerra. Se un pugno di attivisti, da Susan Sarandon (nella foto) a Martin Sheene, si è sentita in dovere di farsi portavoce del disagio e della incomprensione di molti americani per questa guerra preventiva contro una nazione che non ha mai attaccato o minacciato gli Stati Uniti, la maggior parte dei loro colleghi ha provato solo imbarazzo nel prendere pubblicamente posizione, in un senso o nell'altro, su un tema così scottante. È ben venuta dunque la museruola di fatto imposta dalla Academy che, oltre ad abolire la pedana rossa, ha ricordato ai presentatori dei premi, tra i quali la temuta Sarandon, di attenersi al copione già preparato dagli scrittori della cerimonia, da giorni freneticamente impegnati a riscrivere le battute del presentatore Steve Martin: il nuovo clima di guerra ha imposto un tono sobrio, dove è stato consentito scherzare ma senza esagerare. Tra i potenziali vincitori degli Oscar (e c'è da notare che la maggior parte dei film in gara non è stata girata in Usa) che nei 45 secondi a loro disposizione per il ringraziamento hanno ricevuto carta bianca per dire ciò che pensavano, c'era anche il documentarista Michael Moore che accusa Bush di «essere un presidente immaginario, che ha vinto elezioni falsificate, portando l'America in guerra per ragioni immaginarie». Ipocrita anche la decisione degli organizzatori dei party super-sfarzosi in programma a Los Angeles subito dopo la conclusione degli Oscar di mantenere immutati i programmi, abolendo solo la presenza dei giornalisti e dei fotografi agli arrivi e dentro le feste: farsi ritrarre con un bicchiere di champagne in mano, mentre i ragazzi americani muoiono nel deserto, imbarazza i divi.

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