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Saviano annulla gli impegni e si lamenta: “Il governo mi attacca, non mi sento al sicuro”

Pietro De Leo
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Fosse ancora in vita, il critico d'arte australiano Robert Hughes aggiornerebbe il suo "La cultura del piagnisteo" con un'appendice interamente dedicata a Roberto Saviano. Sì, perché l'autore di Gomorra, e maldestro fustigatore del centrodestra in tutte le sue forme, è diventato massimo esponente del vittimismo lacrimevole innalzato a brand ideologico. Ecco l'ultima. Avrebbe dovuto presenziare a due incontri a Reggio Emilia, domenica e lunedì prossimi, uno dei quali con un auditorio di studenti, per parlare del suo libro su Giovanni Falcone. Ebbene, appuntamenti annullati. Ma più che della notizia, di per sé assai poco rilevante, è la motivazione a costituire un capolavoro, messa nero su bianco in una lunga lettera. In cui denuncia: «L'esposizione fisica preoccupa me e chi mi sta attorno perché l'odio è tangibile e non esiste alcuno scudo: chi dovrebbe difendere spazi di libertà e democrazia è impegnato a nascondere le macerie di un percorso politico, culturale e intellettuale che non ha saputo creare ponti, ma solo disgrazie». 

 

 

Secondo lo scrittore, quest'affiorare di odio dipenderebbe dalle querele che contro di lui sono state presentate dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, dal vicepremier Matteo Salvini e dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Azioni legali che, come noto, derivano da contumelie che a loro Saviano rivolse in diverse occasioni. Funziona così, in uno stato di diritto: se tu offendi qualcuno, poi ti assumi la responsabilità di quel che scrivi o pronunci e vai incontro, se del caso, ad azioni legali. Ma evidentemente nell'areopago radical chic il criterio di responsabilità è ad intermittenza: quando va applicato agli avversari si tramuta una forsennata ricerca della colpa; quando invece toccherebbe ai sommi sacerdoti diventa la lesione di una maestà insindacabile. E questo è stato chiarissimo quando, una decina di giorni fa, Saviano chiamato a rispondere in giudizio delle sue azioni (per la querela presentata da Giorgia Meloni) ha svolto una specie di proclama autoassolutorio davanti alla sede del Tribunale di Roma, con alcuni esponenti del mondo intellettuale e del PD a fare da prefiche, in presenza o a distanza. Ieri, dunque, con la lettera è tornato a battere sul punto, sottolineando che sono «ben cinque le azioni giudiziarie pendenti da parte di ministri di questo governo. Chiunque, al mio posto, ne sarebbe paralizzato». Insomma, tutto chiaro. Nessuno gli impedisce di parlare. Nessuno gli revoca sale o fa picchetti per non farlo entrare, e ci mancherebbe altro. Semplicemente, qualcuno ha fatto valere il diritto alla propria onorabilità.

 

 

Saviano, da scrittore, costruisce un racconto per svoltare la frittata rendendo illogico ciò che logico non è, perchè se critichi, senza offendere, nessuno ti querela. Se offendi il discorso cambia. Questo racconto, distorto, è a pronto uso di chi ci casca o chi prova a marciarci. Sorprende che tra questi vi sia Stefano Bonaccini, Presidente dell'Emilia Romagna, neo candidato alla segreteria del Pd, che pareva refrattario più di altri alle canzuncelle politicamente corrette ma evidentemente così non è: «Esprimo vicinanza e solidarietà a Roberto Saviano, a nome mio personale, della Regione e di tutta la comunità emiliano-romagnola», ha scritto ieri in una nota. E ha aggiunto: «Che ritenga (Saviano, ndr) di dover rinunciare a partecipare a due incontri anche per non esporre i presenti a presunti pericoli è un monito che non può essere sottovalutato». Dall'altra parte, Matteo Salvini punge su Twitter, e riportando la notizia la commenta così: «Che dite, sopravvivremo?». In uno slancio istintivo tipicamente italiano, che funziona un po' come nel racconto del Marziano a Roma di Ennio Flaiano. Alla fine ogni fenomeno che credevamo magnifico si usura all'abitudine e alla ripetitività, si appiattisce, diventa scontato. E l'epilogo è in una sonora pernacchia.

 

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