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Ong, torna di moda l'esempio Rackete: chi è Ebeling il capitano della Humanity

Alessio Buzzelli
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Il muro contro muro andato in scena ieri nel porto di Catania tra lo Stato italiano e le navi Ong, se non è un film già visto, poco ci manca. Dopo le immagini, le dichiarazioni e, sopratutto, le azioni viste nelle ultime 24 ore - con i capitani delle navi che rifiutano di lasciare il porto -, infatti, la mente non può non andare indietro al giugno di tre anni fa e al cosiddetto «caso Rackete».

Per quanto allora le modalità dello scontro con le autorità fossero assai diverse, le analogie con quanto accadde la notte del 27 giugno 2019 sono molte, troppe per essere ignorate. A cominciare proprio dall'approccio delle due parti in causa: da uno parte lo Stato, deciso a far valere la propria sovrana autorità sul territorio nazionale, dall'altra le imbarcazioni umanitarie, altrettanto decise a portare a termine lo sbarco dei migranti a bordo purchessia, legge o non legge, autorità o non autorità.

Inevitabile, dunque, oggi come allora, lo scontro frontale, diverso nella forma ma identico nella sostanza. Anche se in quell'estate del 2019, a differenza di quanto accaduto ieri, alla nave Sea Watch 3, capitanata dalla trentunenne tedesca Carola Rackete (all'epoca ragazza sconosciuta, ma divenuta personaggio notissimo dopo gli accadimenti di quei giorni), a più riprese era stato negato l'attracco e intimato il divieto di fare ingresso nelle acque italiane. In quei mesi il governo era di colore gialloverde e alla guida del Viminale c'era Matteo Salvini, più che mai deciso a far rispettare la nuova linea "dura" inaugurata dal primo decreto sicurezza da lui fortemente voluto. Nelle circa due settimane in cui la nave Ong restò ferma al largo della costa di Lampedusa per via del divieto di sbarco imposto dal governo, il clamore mediatico intorno alla vicenda si fece sempre più rumoroso e il caso da nazionale divenne europeo; e d'altra parte lo scontro in atto in quel momento era quantomai simbolico, perché dopo quel braccio di ferro una linea avrebbe prevalso su un'altra, forse definitivamente.

Talmente alta era la posta in gioco che Rackete, il 29 giugno, decise consapevolmente di ignorare il divieto di ingresso nelle acque italiane e di puntare comunque verso il porto di Lampedusa, invocando lo «stato di necessità». «Ho deciso di entrare in porto a Lampedusa - aveva annunciato la tedesca su Twitter 3 giorni prima. So cosa rischio ma i 42 naufraghi a bordo sono allo stremo. Li porto in salvo». E mentre sulla nave salivano giornalisti e persino parlamentari a sostenere «la capitana», Salvini, dopo aver dichiarato che la Sea Watch aveva «ignorato i divieti e gli altolà» e commesso «una provocazione e un atto ostile» non essendoci «alcuna autorizzazione allo sbarco», dispose lo schieramento di una motovedetta della guardia di finanza al fine di impedire alla nave Ong di attraccare in porto.

Mossa questa che a molti suonò come la parola fine della vicenda, ma non fu così: la Sea Watch 3, con le sue 650 tonnellate di peso, tirò dritto verso la banchina e forzò il blocco, ignorando l'alt dei finanzieri e rischiando di schiacciare la piccola motovedetta italiana, tra gli sconcertanti applausi di alcuni sostenitori giunti in porto ad assistere allo sbarco. Dopo circa un'ora i finanzieri arrestarono la tedesca con l'accusa di «resistenza a pubblico ufficiale e violenza a nave da guerra»: da quell'accusa Rackete fu poi prosciolta con tanto di annullamento dell'ordine di arresto da parte della Cassazione, incassando nel 2021 anche l'archiviazione definitiva da parte della procura di Agrigento. Comunque la si pensi, la legge le diede ragione: un precedente questo che rischia di pesare, e non poco, sulle prossime mosse del governo. 

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