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Luana D'Orazio, ipocrisia sinistra: il 1 maggio dimenticati i morti sul lavoro

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Da lassù, Luana, vedrà che la morte vera è pure qui. Luana D’Orazio, 22 anni, che ha perso la vita in una fabbrica toscana schiacciata dai rulli di un macchinario, vedrà quant’è defunto questo Paese avvolto nell’inferno del banale. Mentre si preparano perizie, verifiche su come sono andate le cose, su cosa ha strappato via dal mondo questa giovane mamma, che “amava tutti e aveva paura delle api”, come ha detto sua madre, s’irradia già la colpa non tanto della sua morte, quello no. Ma del modo indegno in cui abbiamo accompagnato alla porta questa piccola grande donna scrigno di tenerezza e di sogni. Come il cinema, per esempio. L’abbiamo vista sorridere in foto accanto a Leonardo Pieraccioni, perché sì, a quell’età si dipinge il futuro dei colori più belli. Ma può accadere che un artiglio nero ti gratti via, il 3 maggio, a due giorni dalla festa dei lavoratori. E le lacrime, il dolore, siano ingiustamente comprimarie nel copione pubblico in questo Paese in eterna assemblea da condominio e lite tra comari. Qui, appunto, risiede la colpa.

Un Paese innamorato della pornografia del futile, che esercita il diritto al chissenefrega per le cose serie e scatena guerre puniche sul trascurabile, il vuoto, il microbico. Mentre Luana ci lasciava noi, qui, nel girone dei condannati all’inutile si dibatteva su un signore salito sul palco il Primo Maggio con le unghie dipinte e il piglio artificiale messianico che vuol catechizzare il mondo su cose che manco conosce. E tutti dietro, accorrendo verso una montagna che ha partorito un topolino: il giallo sul video della telefonata dei dirigenti Rai, la lottizzazione della tv pubblica, il Ddl Zan. E l’autocoscienza eterna della politica.

Il centrosinistra col Rolex che s’è perso per strada il proletariato. Esiste, eccome. Sono, per esempio, i ragazzi che si fanno il mazzo con due, tre lavori. Quelli che se ne vanno e Saviano vorrebbe sostituire con gli immigrati, così si mette in pari la contabilità dei corpi e tanti auguri. I ragazzi con figli e i seminatori seriali (loro malgrado) di curricula.  Ed un centrodestra che abbocca e cannoneggia dalla trincea in una guerra piccola piccola. E tutto d’intorno il “dibattito sul lavoro”, sì. Anche lì di parole più o meno nuove ma di schemi stanchi, su cui ognuno ha portato la sua nota. L’accapiglio sul reddito di cittadinanza finito in tasca ai peggio manigoldi. Il dilemma se i navigator siano perseguitati o paraculati, e le parole che splendono di futuro. Sì, la formazione, l’apprendistato, le politiche attive, e il “pnrr” con la sua pioggia di miliardi evocato come la reliquia del Santo.

Perché in fondo siamo un Paese delle devozioni paesane, quelle che basta poco, aggrapparsi ad un qualcosa quando non ci si capisce più niente, purché sia qualcosa. Perdendo di vista l’umano e continuando a far rumore. Così come, tra lunedì e ieri, dopo la notizia della morte di Luana è stato tutto un vorticare di “bisogna”, “occorre”, di rivendicazioni della commissione d’inchiesta sulla sicurezza sul lavoro, di “mai più” eccetera. Litanie in fotocopia, getto della doccia sulla coscienza di ognuno, rito collaudato ogni qual volta un lavoratore precipita da un’impalcatura, si ustiona o cade in una cisterna. L’Occidente è la terra del logos, ma quella parola nobile frutto d’ingegno e di umanità oggi si è sciolta nella  produzione in serie di cicaleggio sterile, che l’umanità la travolge.

Nella valanga di tweet, di interviste, di colpi di cannone scagliati da una e dall’altra parte della barricata. Sarà banale farlo notare pure, forse sì, perché nulla cambia, e tanto oramai in questo cortocircuito ci stiamo tutti. E il sorriso di Luana, le parole di composta dignità della mamma diventano soffio di nobiltà sul volto di un Paese che si parla addosso. E non è capace manco di ascoltarsi. Prima di andare a dormire e di ricominciare domani, sempre uguale.

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