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Negozi e festivi: caro Di Maio, quanto sei antico

Carlantonio Solimene
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Caro ministro Luigi Di Maio,    io sono perfettamente d'accordo con lei: quando ricordo le domeniche in famiglia di qualche anno fa, quasi mi commuovo. Penso ai pranzi in cui mia madre cucinava il primo piatto (maccheroni alla siciliana) e mia nonna si occupava del secondo (salsicce al forno con patate. Sì, al Sud non si badava troppo all'eccesso di calorie). Poi cominciava la lunghissima fase post pranzo. Davanti al caffè le chiacchiere tra la quindicina di commensali potevano durare ore, mentre io e mio zio ce ne andavamo nella mia cameretta e con la radiolina ascoltavamo le partite. Io tribolavo per l'Avellino (all'epoca era ancora in serie A) e mio zio per la schedina del Totocalcio. Ricordo ancora come gridò e  mi abbracciò una volta che aveva fatto dodici...    Ecco, caro ministro, se io davvero credessi che chiudere i negozi la domenica potesse restituirmi il sapore di quelle giornate, o magari di farlo assaporare alle generazioni future, beh, non avrei difficoltà alcuna a sottoscrivere la sua proposta. Di più, le chiederei di inventarsi qualcosa per restituirmi la villeggiatura di una volta, quella che cominciava a inizio luglio e finiva a inizio settembre, mentre quest'anno, per dire, per godermi qualche settimana di riposo ho dovuto aspettare il 18 agosto.    Temo, però, che le cose non stiano così. Il mondo è cambiato. E mi meraviglia che a non essersene accorto sia proprio lei, che ha qualche annetto meno di me. È cambiato perché quel concetto di famiglia, quel concetto di vita, non esiste più. E non certo per colpa dello shopping nei giorni festivi.    Le faccio il mio esempio: ad oggi la mia famiglia è composta da due sole persone, io e mia moglie. Le famiglie originarie di entrambi sono lontane centinaia di chilometri, ed è così da oltre una decina d'anni, da quando abbiamo lasciato il Sud per trovare lavoro altrove. E, se guardo alle persone della mia generazione, le assicuro che la maggior parte sono nelle stesse o in ancor peggiori situazioni. Magari si trovano all'estero, e per rivedere i familiari devono aspettare agosto o Natale. Insomma, negozi chiusi o negozi aperti, le persone con cui trascorrerò le domeniche non cambieranno granché. Magari andremo una volta in più in un museo per l'apertura gratis... ah, no, pardon: volete abolire anche quella.    Vorrei anche chiarirle, caro ministro, che non sono un fan dei centri commerciali aperti la domenica. Quelle volte che mi è capitato di andarci, avrebbe potuto riconoscermi dallo sguardo depresso e perso nel vuoto. Eppure talvolta proprio non si può farne a meno, perché gli orari sempre più flessibili delle nostre vite non mi concedono molti altri giorni per fare spese con mia moglie. E la notizia non è tanto che io, a quasi quarant'anni, non sia ancora in grado di scegliermi da solo un paio di pantaloni. Ma che persino lei, la mia signora, sostenga che per comprare una gonna il mio consiglio sia indispensabile. Non me lo spiego ma le giuro: è così...    Lei dirà: «Non possiamo certo sfruttare i commessi, signor Solimene, per permettere a lei di fare shopping in compagnia». E certo! Ma chi ha parlato di sfruttamento? Le svelo che anch'io lavoro spesso e volentieri la domenica. Ma lo faccio su base volontaria e ben pagato. È così difficile estendere a tutti questo principio? Fare in modo che chiunque debba sacrificare un giorno festivo lo faccia in cambio di straordinari lautamente retribuiti? Le assicuro che, se funzionasse così, non ci sarebbe bisogno di obbligare nessuno a lavorare la domenica. Ci sarebbe la fila.    Vede, caro ministro, io credo che il compito della politica di fronte al mondo che cambia non sia quello di riportare indietro le lancette dell'orologio. Ma di orientare nel verso giusto lo sviluppo, di aggiustarne le storture che certamente ci sono. La prego, non butti via il bambino con l'acqua sporca. In fondo senza Internet non avremmo mai avuto un ministro come lei. Ma non per questo possiamo abolire il Web...

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