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Vent'anni di rimpianto per l'amico Giuan

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Quando,a Malta per una partita dell'Italia, giunse come una folgore, attraverso la tv, la notizia. Gianni Brera era rimasto vittima di un incidente stradale, nella notte, reduce da una riunione conviviale. Se ne andava il più grande giornalista sportivo della storia italiana. Per chi scrive, significava la perdita di un amico fraterno, di un compagno di viaggio impareggiabile, di un maestro di vita. Aveva rivoluzionato, Giuan, il modo di raccontare lo sport, sottraendolo a quegli stucchevoli accenti celebrativi che ne avevano a lungo segnato il cammino per privilegiare la tecnica e le conoscenze. Provocatorio fin dagli esordi con l'atletica leggera, poi puntualmente controcorrente nella critica calcistica. Attento studioso della storia e dell'etnologia, si sottraeva ai luoghi comuni per spiegare come il calcio italiano non potesse fare meno del mordi e fuggi, difesa stretta e contropiede letale. Si nutrivano a bistecche, i nordici, noi avevamo meno nobili supporti calorici, dunque era giusto eludere lo scontro frontale, che sul piano atletico ci avrebbe condannato. Uomo di grande cultura, osservatore ironico e sottile, era un conforto ascoltarlo in quelle lunghe chiacchierate serali dal Moro, tappa fissa delle sue visite a Roma. Anche in viaggio eravamo avvicinati dalla passione per la gastrononia e per gli approfondimenti storici e letterari. Ricordo i civili dibattiti con Davide Lajolo, politica e filosofia, quando a mezzanotte Gianni imponeva l'alt. «Perché - spiegava - tu sei astemio e io dopo quest'ora non sarei competitivo». Conservo gelosamente la sua lunga, affettuosa dedica, sul libro dedicato alla storia del calcio in Italia, un testo così attuale che tanti dovrebbero rileggere, mai è troppo tardi per arricchire le conoscenze. Restano, purtroppo, soltanto questi venti anni di accorato rimpianto, di ricordi che nessuno riuscirà a cancellare.

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