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Le urla strazianti dei compagni in ospedale

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Dopo due ore di cure Piermario Morosini si è arreso al pronto soccorso di Pescara: anche i tifosi in lacrime

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Nonpuoi capire cosa sono, ma sai cosa esprimono. Al Pronto soccorso di Pescara quel suono maledetto, che nessun compositore potrà mai riprodurre in partitura, è echeggiato col coro dissonante e impazzito dei giocatori del Livorno. Un suono strangolato nel petto e nella gola aridita, prima di rimbombare nelle orecchie, dei medici e dei sanitari che hanno fatto di tutto per strappare Piermario Morosini alla morte. Per un'ora e mezza la scienza ha duellato ad armi impari col destino, che le spuntava tutte le lame fino a lasciarla a mani nude. Fuori i tifosi del Pescara, che magari dagli spalti, pochi minuti prima, avevano fischiato l'avversario - anche questa è la dura legge del calcio - erano riusciti in un piccolo miracolo di speranza: un lungo striscione srotolato sul cortile dell'ospedale: «Morosini, la Nord è con te!!». Quello striscione viene riarrotolato mestamente, come la speranza. Piove. Nessuno fa caso a quella pioggia triste e alle gocce che si portano via le lacrime e le nascondono con pudore. Il suono soffocato che è filtrato dal Pronto soccorso, quell'esplosione di impotenza e di dolore, si diffonde come una scarica elettrica. Morosini non c'è più. Il suo cuore ha smesso di battere sul prato dell'Adriatico e non ha voluto saperne di ripompare la vita in quel corpo disteso su un lettino. Per lui non c'è stato neppure l'«urlo nero» della madre, come ha scritto Salvatore Quasimodo. Piermario la madre non ce l'aveva più. Aveva perso pure il padre, e persino il fratello. I poeti che hanno cantato anche la solitudine e l'amarezza dei portieri, non hanno mai pensato di cantare la morte di un calciatore. Morosini si era rialzato due volte, in quel maledetto 31° di Pescara-Livorno. Si era rialzato dal prato verde dello stadio come un atleta deve fare prima di arrendersi definitivamente. Pochi avevano capito, nell'immediatezza di quei secondi che sembravano non passare mai, che la sua partita era per non far recidere quell'esile filo che lo teneva abbarbicato alla vita. Quando in futuro si scriveranno frasi fatte come «partita della vita», occorrerà scansare una banalità che mette una cosa importante al posto di qualcosa di assolutamente secondario: una partita è una partita, e la puoi ripetere; la vita puoi solo perderla. Aveva venticinque anni, quel ragazzo in maglia amaranto. Un'età in cui si guarda solo avanti, e se fai una professione fortunata e celebrata come quella del calciatore, la immagini sempre in rosa. Lui aveva un motivo in più per guardare avanti, perché indietro aveva pagine dolorose da archiviare. Manca una manciata di minuti per «Le cinque della sera», quando al Pronto soccorso «La stanza s'iridava d'agonia» e i medici si arrendono perché non c'è più nulla da fare; «Una bara con ruote è il letto »: i versi di Garcia Lorca sembrano attanagliarsi dolorosamente a una tragedia che non è solo sportiva, che non è solo di Pescara (due settimane fa in città è scomparso in casa, per infarto, il 44enne preparatore dei portieri, Francesco Mancini), che coinvolge chiunque abbia un minimo di sensibilità. Buio in sala, ma il sipario si richiude. Qualcuno, per una volta, senza starci troppo a pensare ha messo da parte diritti televisivi e business che fanno rotolare il pallone a scacchi, e ha deciso che lo spettacolo no, stavolta non può continuare.Non deve continuare. Il calcio si ferma e per una volta mostra il suo volto umano . I compagni di squadra, i colleghi, i tifosi si muovono in ordine sparso, a testa bassa. I singhiozzi non li senti, ma li immagini proprompere dai quei ragazzi in tuta che fino a poco prima avevano scherzato con Piermario, o magari si erano anche arrabbiati con lui per un passaggio sbagliato, o per un malinteso sugli schemi. Ma quello era un gioco. Poi tocca ai medici tentare di spiegare cosa è accaduto. Persino il cardiochirurgo Leonardo Paloscia, che pure ne ha viste tante, cerca di capire perché quel cuore non si è rimesso mai in moto. Così il collega Edoardo De Blasio. L'autopsia darà un perché a quella morte, secondo le leggi della scienza e le conoscenze dell'uomo. La medicina non lenisce le ferite dell'anima e in questo caso non ha potuto neppure curare la ferita del corpo. «Il resto era morte e solo morte», per usare ancora le parole di Garcia Lorca. Piove, sulla città così ingrigita. Non c'è alcuna bellezza in questo. E nessun poeta può trasformare quelle gocce nelle lacrime del cielo.

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