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Inutili i paragoni ma l'argentino ha un posto tra i più grandi

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C'èda chiedersi, adesso, che senso abbia promuovere un'ennesimo, largo suffragio per stabilire chi abbia diritto al titolo di numero uno del mondo, quel Pallone d'Oro che il 24enne argentino ha già monopolizzato. Non si avverte l'esigenza di una lunga schiera di candidati per una ennesima incoronazione scontata, non c'è neanche l'ostacolo di quei successi di squadra che spesso, in tanti anni, hanno pesato in negativo su tanti campioni. Ci sarà anche qualche motivo se Francesco Totti non ha mai ricevuto un trofeo finito nelle mani di un Papin, di un Sammer, di un Belanov. Leo Messi è ampiamente tutelato, in questo senso, da quel Barcellona che lo ha adottato fin dall'infanzia e che gli ha regalato la più magica delle simbiosi con due scudieri di limpidissima classe come Xavi e Iniesta. Con i 5 gol allo sventurato Leno, è diventato la «manita de Dios», molto più onorevole di quella «mano» divina che aveva indotto i fanatici di Maradona a celebrare un gesto truffaldino, indegno della filosofia che lo sport dovrebbe dettare. E naturalmente si cerca una collocazione nella graduatoria «all-time», i vertici che il mio personale giudizio assegna a Pelè e ad Alfredo Di Stefano, prima ancora che al mitico mancino del Napoli. Sono valutazioni labili, perché ogni periodo della storia del calcio presenta problematiche diverse: dai ritmi alle capacità atletiche regalate da allenamenti intensi, perfino ai terreni di gioco, agli scarpini sofisticati, ai palloni capricciosi da addomesticare, come lo «Jabulani». Soppesati tutti i fattori, penso che il bimbo trasferito e allevato in Catalogna sia molto vicino al vertice assoluto.

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