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Forza «azzurri»

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Maquando a gridare «gol» sono solo io, e per giunta alle tre della notte e con la finestra spalancata per il gran caldo, è meglio non incrociare lo sguardo dei vicini, il giorno dopo. A loro, dunque, ai condomini increduli mi rivolgo per farmi perdonare, ma anche per spiegare perché sia stato giusto averli svegliati con un impeto di felicità. Festeggiavo, l'altra notte, il fatto che anche l'Uruguay avrà la sua finale a Buenos Aires, domani sera, affrontando il Paraguay nella Coppa America. Rappresenta per i sudamericani quel che la Coppa dei Campioni è per gli europei. L'Uruguay ha vinto quella Coppa quattordici volte, come l'Argentina, e quasi il doppio del Brasile (otto volte). Del resto, gli esperti di calcio sanno bene che l'Uruguay è la bestia nera dei cinque volte campioni del mondo, i brasiliani, che furono battuti a casa loro 2 a 1 nella mitica finale di Maracaná, anno 1950. Ancora oggi le guide di Rio de Janeiro mostrano al visitatore, affrante, la porta della sconfitta in un per loro triste tour allo stadio. Capisco, per me è facile raccontare: sono nato e cresciuto a Montevideo da padre italiano e mamma uruguaiana. Ma deve diventare facile tifare Uruguay anche per voi, vicini di casa e italiani in generale, perché la «Celeste» coi pantaloncini neri è solo l'altra facciadegli «Azzurri» coi pantaloncini bianchi. Gli uni sull'Atlantico, gli altri nel Mediterraneo. A volte sono proprio la stessa squadra oltrel'Oceano e oltre il Mare, se si pensa che gli uruguaiani italiani, Juan Alberto Schiaffino e AlcidesGhiggia, fuoriclasse degli anni Cinquanta, giocarono in entrambe le Nazionali, e con identico fervore. E poi oggi c'è l'esercito degli «uruguagi», capitanato da Edinson Cavani, il nuovo Maradona del Napoli, che gioca in serie A. Sono nostri idoli nel nostro campionato, possono esserlo anche nella Nazionale a noi così familiare, e allenata da Oscar Washington Tabárez, che allenò anche in Italia (il Cagliari e, poco, il Milan) e parla italiano, come molti uruguaiani. Ma anche il modo di giocare della Celeste è un modo profondamente italiano. Non c'è catenaccio al mondo più solido di quello praticato dall'Uruguay. Non c'è contrattacco più elegante e birichino di quello messo in campo dall'Uruguay. Forse il Diego Forlán di oggi non fa venire in mente il Gianni Rivera di ieri? Forse la grinta, la «garra» degli uruguaiani, come si dice in spagnolo, non rievoca l'Azzurro dei tempi migliori? E poi lo rivendicano gli uruguaiani con orgoglio. Nella canzone che è stata composta per accompagnare la Celeste nella Coppa America, le parole ricordano che gli uruguaiani sono figli «degli immigrati italiani e spagnoli». E notare la finezza, notarel'affetto nell'aver messo gli italiani prima degli spagnoli. Solamente gli italiani ignorano d'aver tante altre Italie nel Continente scoperto, tra l'altro, da un italiano il 12 ottobre 1492. Dalle caravelle di Colombo ai gol di Suárez la distanza non è di secoli, ma di secondi. E allora se, come spero, tornerò a gridare «gol» nell'attimo fuggente e nel cuore della notte, se tornerò a commuovermi esattamente come mi sono commossoper Berlino e, ventiquattro anni prima, per Madrid («campioni del mondo!», gridava tre volte Nando Martellini), sappiate che lo faccio per amore d'Uruguay e per amore d'Italia, che tutti i colori del blu riflettono sotto il cielo di Roma.

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