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Il Vecchio Continente sta cambiando pelle

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Perquasi un secolo fu caratteristica dell'atletica britannica e francese mettere in campo atleti di colore, attingendo dagli immensi patrimoni coloniali. In tempi lontani, s'era nel 1924, ci fu anche un timido tentativo da parte italiana, in occasione d'una visita sul nostro territorio di Hailé Selassié, reggente dell'impero etiopico. Tra la pletora di accompagnatori del futuro Negus vennero individuati un paio di ascari, supposti corridori di vaglia. Sedotti dalla novità, i dirigenti federali dell'epoca iscrissero Mereg Mangascia e Tacle Redda ai Giochi olimpici di Parigi. Ma dopo qualche previdente anteprima agonistica, i due improbabili campioni furono elegantemente messi da parte. Da un paio di decenni, la tendenza britannica e francese ha fatto scuola, e l'esodo in direzione delle nazioni europee è divenuto una costante. Barcellona ne è conferma. Fuga da atrocità di conflitti, sete di guadagni, relazioni sentimentali, le ragioni che ripropongono nello sport quanto avviene nel tessuto sociale del continente, in Spagna, Olanda, Svizzera, Norvegia, Italia, Svezia. In questi Europei, 15-20 atleti sono tra i primi della classe. Sui 10.000 metri abbiamo assistito al successo di Mohammed Farah, fuggito da Mogadiscio e rifugiato politico a Londra. Lo rivedremo sui 5000. Tra gli antagonisti, Alemyehu Bezabeh, origini etiopi: sbarcò cinque anni fa a Barcellona con passaporto falso, fu condotto a miglior vita da un sacerdote. Francis Obikwelu, nigeriano, rappresenta il Portogallo. Hilda Kibet, keniana, veste la maglia olandese dopo essersi innamorata di un maratoneta locale. Libania Grenot, quattrocentista, cubana di Santiago, vive a Casal Palocco. Per molti, l'Europa è l'America.

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