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La lezione morale dell'imperatore Claudio

Claudio Ranieri, allenatore della Roma

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{{IMG_SX}}Lo spettro benedicente di Ovidio aveva accompagnato Ranieri verso il sottopassaggio, alla fine del primo tempo. Gli sussurrava all'orecchio quel verso immortale: «Molti ti saranno amici finchè sarai felice, ma quando verrà il brutto tempo, resterai solo». Lì l'allenatore giallorosso ha avvertito dentro di sé quel brivido inquieto che - se fosse finita con un rovescio - lo avrebbe perseguitato per il resto dei suoi giorni. Nel fondo degli occhi gli baluginava la visione dell'esilio, dell'ignominia, del disastro interiore. Ma non ha avuto esitazioni. Perché la solitudine del leader costringe a scelte improvvise, in grado di cambiare il corso degli eventi nel tempo breve di una folgore nel cielo, o di un tè caldo negli spogliatoi. Rischiando quella mossa che nessun altro al mondo avrebbe rischiato, quella che potrebbe condannarti a vita, in una città che da duemila anni divora tutto, tragedie e sogni, ma non perdona mai la sconfitta, nel campo simbolico del gioco. Davanti al mondo intero incollato alla tv, Ranieri ha preso la decisione epocale. Come un condottiero romano che con gesto risoluto e incontestabile ordinasse la rimozione della statua della Lupa Capitolina: «Portatela via», con i due gemelli del mito fondante dell'Urbe attaccati sotto le mammelle. Ha tolto Romolo e Remo, e si è affidato agli Orazi perché trionfassero nella sfida contro i Curiazi. Ha chiesto ai due capitani - quello del presente e quello del futuro - di togliersi di mezzo, perché «sentivano troppo la tensione del derby». Totti e De Rossi: due campioni immensi, ma umorali, due che si sarebbero fatti uccidere pur di vincere questa partita. E chissà se lui, l'imperatore Claudio, incanutito nelle battaglie lontano dalla terra d'origine, ha pensato alle intemperanze della gioventù, mentre diceva a Francesco e Daniele di rivestirsi. Lui che, il giorno del suo arrivo a Trigoria, aveva detto a chi lo accoglieva come uno scarto della Juve: «Sono andato via 35 anni fa per farmi le ossa, torno che mi sono fatto vecchio. Sono romano e romanista, ma ho navigato in tutte le acque del Mediterraneo». Non c'è solo tanta storia della Città Eterna a lampeggiare, alla rinfusa, come un film riavvolto veloce, nel gesto dell'Olimpico. Quella di Ranieri è stata una lezione morale per tutti, vincitori e vinti, amici e avversari. In qualche forma obliqua, è stata un'epifania per il Paese. C'è un uomo segnato dalla maturità che sceglie, e affronta un possibile linciaggio e la solitudine senza appello. In questa Italia dove in tanti fanno professione di chiacchiere e inefficienza, il tecnico ha saputo economizzare quello che l'azienda gli metteva a disposizione a un niente dal crack definitivo, e poi valorizzato le risorse umane, individuando l'obiettivo, la "mission" applicata alla speranza, che è la linfa effimera ma necessaria per ogni traguardo, personale, politico e sociale. L'uomo degli «zeru tituli» che ora punta - con signorilità e virile determinazione - a far mangiare l'erba a Mourinho e ai Paperoni milanesi.

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