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Lo sport contro l'apartheid può funzionare

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Tantopiù che il soggetto è tutto centrato su un tema che incrocia lo sport con la politica, perché Mandela si concilia clamorosamente con la più bella squadra nazionale di rugby, benché sia composta tutta di bianchi e allergica al fascino degli indigeni «abbronzati», come direbbe Silvio. Ma mi pare che nessuno abbia notato che il «Leader» africano tifa apertamente per la squadra di rugby e per la sua affermazione in campo internazionale perché è convinto che questa affermazione entusiasmerà tutti i sudafricani di qualsiasi colore e li stringerà anche intorno alla sua battaglia per l'apartheid. Con tutte le enormi differenze politiche ideologiche ed ambientali del caso, è lo stesso ragionamento che - primo tra i dirigenti politici del Novecento - fa Mussolini nel 1925 quando, pochissimi anni, per non dire mesi, dopo la difficilissima soluzione della crisi provocata dall'assassinio di Matteotti da parte di una squadraccia fascita, affida la presidenza del Comitato Olimpico e quella della Federazione Gioco Calcio a due esponenti del Partito: Ferretti e Arpinati. Alla base di questa decisione c'è proprio l'intuizione che il Duce, discutibilissimo dittatore ma sicuramente maestro di giornalismo e di propaganda, ha avuto dell'enorme influenza psicologica che, almeno potenzialmente negli anni Venti del secolo scorso, lo sport può avere sulle masse come esaltazione della patria, del regime e (ahimè) della razza. Lo sport, beninteso, interpretato ed organizzato sulla base del geniale regolamento inglese ma soprattutto di un sistema mediatico (c'è già, timidamente, la radio; ci sarà presto la televisione) ben manovrato. L'idea è così giusta che nella prima grande Olimpiade moderna, Los Angeles 1932, gli atleti azzurri cominceranno già a cogliere qualche alloro in nome dell'Italia fascista e che, tra il 1934 e il 1938 la Nazionale di calcio vincerà due titoli mondiali ed uno olimpico. Hitler e Stalin imiteranno senza esitazione il loro collega italiano e, come si vede nel film di Eastwood, Mandela farà lo stesso. Evidentemente non si tratta di un'idea del partito e del regime ma di una intuizione dell'incredibile fascino che può esercitare sull'uomo moderno un grande spettacolo come lo sport che unisce all'emozione per il gioco, la competizione, il risultato, l'esaltazione di valori come l'attaccamento ad una bandiera, alla patria, alla città. Con il vantaggio di non esigere il martirio della guerra ma semplicemente una buona organizzazione tecnica e un efficace sistema di informazioni. Sono quasi cent'anni che il collegamento funziona ed è molto probabile che funzionerà, a vantaggio dei paesi africani, anche in occasione dei mondiali di Città del Capo. Ma esiste obiettivamente il pericolo che la caccia al super-spettacolo sportivo in funzione delle grandi emittenti televisive e della pubblicità, l'ossessione dello show tipo NBA o Champions, possa oscurare i legami sentimentali, culturali, territoriali che hanno fatto finora la fortuna dello sport moderno.

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