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La serie A è dei grandi

Galliani, Matarrese e Moratti

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Il calcio è un affare da grandi. La Serie A riparte tra tre giorni e quest'anno sarà stagione da record e «festival metropolitano». A dirlo sono le cifre. L'esercito degli italiani «in campo» si è ingrassato ancora un po' e proviene per lo più dalle città che contano. Per la prima volta ventiquattro milioni di persone saranno coinvolte, territorialmente parlando, nel campionato. Si tratta di un milione di italiani in più rispetto allo scorso anno. Secondo un'analisi di StageUp, società di ricerca nel mondo dello sport, dei diciassette comuni (e altrettante province) che rappresentano le venti società della serie A, sono i più grandi a dettare le regole del gioco. Quindici città contano più di 100mila abitanti, rispetto alle tredici (su sedici) della stagione 2008/2009 e, tra le province, sono otto quelle che superano il milione. Un campionato, quello ai nastri di partenza, fatto dai grandi e pensato per loro, in cui a contare sono anche le dimensioni. La cornice del quadro da serie A è proprio il territorio e la sua forza. Nel calcio, si sa, c'è chi sale e c'è chi scende. La stagione che si è conclusa si è lasciata alle spalle il Torino (la sua uscita di scena però non ha turbato l'equilibrio generale vista la presenza della Juventus in campionato), la Reggina (che conta 184mila abitanti) e il Lecce (93mila) a favore di Livorno (160mila), Parma (178mila) e Bari (322mila). Qualche piccola è rimasta indietro e nessuna, praticamente, è venuta avanti. La tendenza conferma il calcio dei «soliti noti» in cui le provinciali scompaiono all'ombra dei giganti. Solo per fare un esempio, l'ultima vittoria di una provinciale risale a venticinque anni fa, firmata dal Verona nell'ormai lontano campionato 1984/1985. Le piccole combattono per restare a galla nel girone dei potenti e per farlo devono per forza diventare virtuose. «Un campionato come il nostro - spiega il presidente di StageUp Giovanni Palazzi - ha prodotto un'emarginazione delle società minori. In serie A si spendono cifre inimmaginabili fino a dieci anni fa, eppure club come Atalanta, Udinese o Siena sono quelli gestiti meglio». Vizi e virtù di questa serie A rispecchiano il calcio italiano: grandi numeri, ingaggi record, stipendi d'oro e, dulcis in fundo, grossi buchi. «In parte è la maniera europea di concepire lo sport a produrre questa situazione - continua Palazzi - in America la retrocessione non esiste. Da noi le piccole rischiano di fare spese folli e indebitarsi fino all'osso solo per la paura di retrocedere. Tutto gira sempre intorno ai soldi, scendere dalla A alla B significa ridurre di due terzi i ricavi». Chi è più piccolo è anche più debole, ha meno capacità di competere sul mercato eppure, se vuole imbarcarsi e resistere, deve sedersi in prima classe accanto ai grandi. Chi resta indietro, intanto, si impoverisce sempre di più. In serie B gli stadi cadono a pezzi, le squadre sono sempre più fragili e indebitate e i giocatori restano a volte per mesi senza stipendio. Il calcio dei diritti tv è praticamente blindato dalla serie A e i debiti delle società di B aumentano. Di conti in rosso se ne vedono ovunque, ma di sicuro le spalle delle grandi sono sempre un po' più coperte delle altre. Questa è l'Italia. E, verrebbe da dire, non è un Paese per piccoli.

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