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La tradizione conta più dei protagonisti

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Perpoter seguire Italia–Brasile mi sono dovuto rifugiare in un pub frequentato da italiani ma avrei fatto meglio ad andare al cinema. Temo peraltro di non sbagliarmi nell'affermare che la manifestazione che ormai sta per concludersi non ha dato i risultati, tecnici e spettacolari che in realtà nessuno si attendeva ma che erano l'unica giustificazione per farla svolgere. Si è avuta l'ennesima conferma che nello sport (ma forse nella vita) la tradizione ha valori che non si possono costruire artificialmente. Ci sono concrete possibilità che questa sera il Brasile, cinque volte campione del mondo, salvi almeno il prestigio di questo mondialino di serie B, ma nel complesso i risultati sono stati modesti ed in alcuni casi (quelli dell'Italia e della Spagna i più visibili) addirittura controproducenti. Penso, come ho detto, che alla fine il Brasile si salverà semplicemente perché i suoi giocatori, pur sparpagliati in tutto il mondo, hanno conservato quella quota di divertimento che li ha portati fin da bambini a prendere a calci un pallone. Italiani e spagnoli, abituati a far calcoli ed a ragionare in termini di Coppa del Mondo, di Champions, di Liga o di scudetto, hanno perduto le motivazioni infantili e sono diventati professionisti troppo in fretta. Dicevo all'inizio della forza della tradizione e non c'è posto più adatto di Wimbledon per verificarla. Quando è venuto a mancare, con Nadal, uno dei motivi tecnicamente più importanti del torneo mi è sembrato giusto ricordare come Wimbledon fosse riuscito a stabilire nuovi primati di affluenza e di incasso (poi sistematicamente battuti ogni anno) nel 1973 quando due giorni prima dell'inizio avevano ritirato la propria adesione 78 dei primi 82 giocatori del mondo. Quando una competizione diventa più importante dei suoi protagonisti (è il caso delle Olimpiadi) si è già conquistata il proprio posto tra gli eventi che non hanno bisogno di eroi per diventare memorabili.

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