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La trappola di Ancelotti e Beckham

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Tutto, a quel punto, è passato in second'ordine, a partire dai sorridenti (e agri) bisticci della vigilia sul futuro possesso della panchina romanista, altra furba operazione lanciata da quel sornione del Carletto che sapeva benissimo di non poter competere con la Roma sul piano meramente tecnico/agonistico. «Lasciamo perdere la partita, parliamo d'altro» pareva dire il tecnico rossonero; e si è presentato all'Olimpico con lo spirito di chi vuole organizzare un reality show, stendendo sul campo tutte le sue più belle figurine compresa quella - appena registrata dall'Albo Panini - del reuccio inglese celebrato nel mondo come ideale testimonial del grande calcio anglospagnolo e oggi anche italiano. Fuor degli scherzi, la Roma applicata al compito essenziale di recuperare tre punti per fare un passo avanti verso la zona Champions, è stata rappresentata per lungo tempo solo da Vucinic, uno che ama la feste, ma solo le sue, quelle che seguono i suoi gol micidiali; gli altri giallorossi mi son parsi spesso spettatori imbarazzati, preoccupati di non guastar la festa al David di Berlusconi; nessuno - diciamo un Mexes - che abbia manco pensato di accarezzargli le caviglie, con finezza, giusto per fargli capire cos'è il calcio da 'ste parti. Il clima festoso è stato per lungo tempo rispettato finché Pato non ne ha approfittato troppo rifilando a Doni due gol da taluno cantati come capolavori, in realtà frutto di sciagurate distrazioni difensive. Lì s'è svegliata la Roma, dimostrando il suo vero carattere e le possibilità concrete che aveva di metter sotto quella compagine di vecchiotte all stars quasi cadenti; ma era troppo tardi, tardiva l'ammirazione per quegli interventi bellissimi e potenti di Juan, per la sportivissima rabbia di Vucinic; tardiva la sensazione di aver partecipato alla festa di Beckham (bell'esordio, va precisato) senza privilegiare la ricerca esclusiva e imperativa della vittoria. Che progetti si posson fare, adesso, a metà classifica?

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