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La necessità di un tempio comune

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La Lazio non è una squadra di calcio e neppure, se è per questo, una polisportiva nuda e cruda. La Lazio è cultura, è etica: una monade che si manifesta in 42 diverse epifanie senza per questo perdere la propria essenza una e indivisibile. Tale primigenia unità viene appunto riscoperta ogni 9 gennaio, il giorno in cui, nel 1900, la Lazialità si incarnò sulla famosa panchina di Piazza della Libertà, a poche decine di metri da Ponte Margherita e dal biondo padre Tevere. Si tratta di un ritorno mistico alla Casa da cui siamo venuti, di un Viaggio che ci monda dai peccati (dei quali persino noi troviamo così difficile pentirci) che la torbida e affascinante malattia del tifo ci spinge a commettere nel resto dell'anno. Il 9 gennaio è il giorno in cui le aquile solitarie spiegano all'unisono le ali e guardano verso il sole, ignorando il branco che, laggiù sulla terra, ulula più forte del solito perché spaventato dalle loro ombre solenni. Ed è dunque anche il giorno più adatto per cercare una risposta all'antica domanda: dove ci porterà questo volo? Quale nido ci attende? Perché quando si sposta lo sguardo dalla monade Lazio alle sue 42 declinazioni il panorama si fa talmente frastagliato da diventare illeggibile. E' ormai quasi da 50 anni che la Società Sportiva originale, una ma articolata in otto sezioni dedite a discipline diverse, s'è spezzettata in un numero crescente di frammenti. Oggi la comunità biancoceleste ha dimensioni, numeriche e geografiche, davvero imponenti, estesa com'è sull'intero suolo della regione di cui porta il nome. Una molteplicità che da un lato è un arricchimento ma dall'altro fa perdere di vista fra di loro tutti questi laziali. Forse è ora che i nostri pontefici, da Buccioni a Lotito, comincino a studiare come riedificare un tempio comune.

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