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Quando l'«airone» volò via

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Un uomo schivo, inquieto, cavaliere solitario di un'epica che creò leggende ed alimentò miti. Con le sue imprese attraverso le strade d'Italia e di Francia, con i suoi azzardi agonistici, inseguito dalle emozioni di mezza nazione, Fausto Coppi contribuì generosamente alla ripresa morale ed ai sogni di un'Italia appena uscita dal conflitto mondiale, facendo di un atto privato un'elegia collettiva. Era, quello, lo sport italiano dell'immediato dopoguerra, lo sport che aveva in Gino Bartali un altro formidabile protagonista sulle due ruote, nei calci illuminati del Grande Torino, negli sci di Zeno Colò e nei dischi regali di Adolfo Consolini le perle di un'attività che dava dignità ad un paese lacerato e confuso. Da allora, molti valori, nella fatica sportiva, hanno mutato orizzonte. Ma l'immagine solitaria dell'uomo sulle curve aeree e sterrate dello Stelvio, del Vars o dell'Izoard mantiene inalterata, a distanza di mezzo secolo dalla scomparsa, la sua potenza. Coppi era nato all'ombra del campanile di San Biagio, a Castellania, modesta famiglia dell'alessandrino raccolta attorno a terre contadine dure, stentate. Un fratello, Serse, ciclista anch'egli, finito esanime nel 1951 sulle strade del Giro del Piemonte. Un cieco, Biagio Cavanna, primo ad intuire nel fisico sgraziato del giovane, con il tocco magico delle sue mani, le infinite possibilità racchiuse nei muscoli di seta lunghi come pennoni. Nel 1940, ventunenne, il destino agonistico, complice una caduta di Bartali, proiettò a sorpresa il giovane al vertice del Giro d'Italia. Due anni dopo, sulla pista del velodromo Vigorelli, Fausto abbatteva il primato mondiale dell'ora. Al rientro dal conflitto, dopo due anni di prigionia in Africa, «campionissimo» secondo definizione comune, Coppi aprì un calendario di affermazioni che avrebbero avuto l'apice nel titolo mondiale su strada sul traguardo di Lugano, nel 1953, in cinque vittorie nel Giro d'Italia e in due nel Tour de France e negli innumerevoli traguardi di tutte le classiche internazionali in linea. Memorabile, su tutte, la vittoria nella tappa Cuneo-Pinerolo nel Giro del 1949, 192 chilometri di fuga solitaria. Nel pomeriggio del 10 giugno, quella vittoria dettò a Mario Ferretti, che divideva fama e popolarità radiofonica dell'epoca con Nicolò Carosio, l'apertura della cronaca con la frase incisa negli annali della letteratura sportiva: «Un uomo solo è al comando della corsa, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi». Più avanti, l'incontro fatale con una donna, Giulia Occhini, sposata e madre di due figli, la «dama bianca»: il primo matrimonio saltato in aria, l'inizio di una vita ammaliante ma avvelenata da ambiguità e scandali e mortificata sull'altare di un'Italia preda di leggi borboniche, causa anche del temporaneo arresto della donna, la cui presenza nella vita del campione si rivelò tuttavia col tempo esposta e ingombrante. A 38 anni, nel 1957, l'ultima vittoria di Fausto, nel Trofeo Baracchi, in coppia con il nuovo primatista dell'ora, Ercole Baldini. Due anni dopo, ormai fantasma del campione che fu, l'invito a correre su circuiti addomesticati e a praticare safari in Africa, nell'Alto Volta: partì senza vaccini, nessuno gli parlò di malaria, di febbre gialla, di insidie equatoriali. Rientrò spossato, preda del male. Medici di Tortona e di Genova sbagliarono diagnosi, allarmi di ciclisti francesi colpiti da identico insulto patologico rimasero inascoltati. Il 2 gennaio, l'inventore del ciclismo moderno morì. Le analisi del sangue confermarono la morte per malaria: sarebbe bastato qualche pasticca di chinino per tenerlo in vita.

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