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Grazie Roma

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Dopo l'esperienza all'Everton

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Parola di Al Pacino, alias Tony Montana, in Scarface: legge della strada, verità assoluta. Avevamo incontrato Matteo Ferrari a marzo 2005, casualmente all'aeroporto di Fiumicino alla vigilia di Italia-Scozia. Era la fine di quella stagione terribile per la Roma che lo aveva inevitabilmente coinvolto e nella quale forse era stato esageratamente utilizzato come capro espiatorio. Lo sguardo basso, di un giocatore, di un ragazzo... sconfitto. Lo ritroviamo adesso, a distanza di quasi due anni, dopo la stagione d'esilio «volontario» in Inghilterra e i suoi occhi parlano di nuovo di un vincente. Di un ragazzo che ha ritrovato, stimoli, voglia e consapevolezza. In questo primo squarcio di stagione in giallorosso, Ferrari ha dimostrato di poter essere un giocatore da Roma e di meritare appieno la stima e la fiducia che Spalletti, la società e la gente hanno risposto in lui. Cosa non andò quell'anno? «Forse si è esagerato nel parlare, sono stato criticato sin dall'inizio e questa cosa mi è sembrata strana. Dopo due partite si davano già delle sentenze e avevo capito di non esser stato accolto nel migliore dei modi: senza un vero perché. Me ne ero fatto una ragione, poi però nel proseguo della stagione le cose non sono migliorate né per me, né per la squadra. Sappiamo tutti che anno è stato quello per la Roma. Un'annata negativa per tutti, me compreso: però c'è da dire che in alcuni casi sono stato preso un po' di mira». A quel punto in genere che si fa? «Non lo so. Io mi sono rimboccato le maniche, ho proseguito a testa bassa, perché purtroppo sono cose che fanno parte del mestiere». Ora a Roma si respira un'altra aria. «Al mio rientro ho trovato un altro ambiente, sicuramente più sereno, più tranquillo e questo mi ha aiutato. Anche la gente mi ha voluto dare un'altra chance, perché fin da Castelrotto, i tifosi mi hanno detto di stare tranquillo, che tutti avevano capito che non era stata colpa mia. Mi sono preso questa responsabilità e per adesso mi sembra che le cose vadano nel modo giusto. La gente allo stadio mi applaude e per la strada mi fanno i complimenti: segno che questa è la strada giusta». Ora c'è di nuovo l'ipotesi panchina... «Ci può stare, quando hai tre giocatori sullo stesso livello. Ovvio che è difficile da accettare soprattutto quando tu pensi di star bene. Però stanno bene anche Chivu e Mexes, quindi giusto che ci sia della sana competizione: però per adesso sono quello che è stato utilizzato di più. Importante è farsi trovare pronto, perché conta la qualità della partite giocate e non la quantità». Ha qualcosa a che fare col passato? «Esatto, se potessi tornare indietro forse non le giocherei le 35 partite dell'ultima stagione. In molte gare non stavo a posto fisicamente, perché non avevo fatto la preparazione estiva e ho giocato anche con delle infiltrazioni. Insomma ho voluto giocare sempre anche quando non ero a posto proprio nel tentativo di invertire la tendenza negativa. Sono state scelte sbagliate, come forse andare alle Olimpiadi (come fuori quota, ndr) dopo aver fatto l'Europeo in Portogallo: con soli dieci giorni di riposo». Compromise anche la preparazione con la Roma. «I risultati si sono visti sul campo, sono tornato che ero vuoto dentro. Però mi ricordo che Gentile mi aveva fatto capire di aver necessità e mi è stato difficile dirgli di no». Dall'Inghilterra cosa ha riportato? «Un'esperienza di vita importante, anche se due infortuni mi hanno costretto a giocare poco. È stato utile per ricaricare le batterie, imparare un'altra lingua e scoprire un calcio nuovo che mi aveva sempre affascinato». È molto diverso dal nostro? «Beh, non sono latini come noi, ma c'è comunque qualcosa da imparare. È tutto inteso in maniera diversa, lì il calcio è ancora uno sport». Spieghi prego? «Per esempio io arrivavo prima della partita allo stadio con la mia macchina, e fine gara me ne andavo senza alcun problema: c'è meno stress. È proprio una cultura diversa, arrivavi alla partita più sereno, poi ti caricavi in quell'ora e me

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