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Alla vigilia del match col Portogallo il leader azzurro Bortolami carica l'Italia del rugby

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La sfida: «Sarà l'anno della consacrazione»

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Capitano dell'Italia dal 2002 a soli 22 anni (il più giovane della storia, ndr), capitano del Petrarca Padova, dove è cresciuto rugbisticamente, capitano del Narbonne in Francia, capitano del Gloucester dopo appena un mese in Inghilterra. Nato per essere leader. «Quando il coach del Gloucester Dean Ryan, dopo essersi consultato con gli anziani della mia nuova squadra, mi ha dato la notizia sono rimasto sorpreso. Non è facile inserirsi in un ambiente così competitivo come quello del Gloucester, un club che punta a vincere tutte le competizioni cui partecipa, pieno di giocatori internazionali e di nazionali inglesi. Sono particolarmente orgoglioso del fatto che sia stata subito riconosciuta la mia leadership nel gruppo da parte dell'allenatore, lo considero un premio all'impegno che metto nel mio lavoro». Provi a spiegare loro il significato del ruolo di capitano nel rugby. «In effetti nella nostra disciplina il capitanato riveste un'importanza diversa rispetto ad altri sport. Magari è più facile soffermarsi su ciò che si vede in campo, ma il capitano gioca un ruolo fondamentale anche nella preparazione dei match, negli allenamenti e nell'indirizzare il lavoro dell'intero gruppo verso l'obiettivo fissato dall'allenatore». Rilevante, per chi è nuovo del rugby, anche l'aspetto disciplinare. In campo nessun giocatore tranne il capitano può rivolgersi all'arbitro. «Certamente la comunicazione con il direttore di gara è molto importante. A volte capita di incontrarne alcuni aperti al dialogo, altri invece sono più rigidi e ascoltano poco, magari per paura di lasciarsi influenzare. L'abilità di un buon capitano si esprime anche in questo rapporto». Due anni a Narbonne, ora un contratto per i prossimi due a Gloucester. «Tutte le cose presentano diversi aspetti. Nei due anni a Narbonne mi sono enormemente arricchito in termini di esperienza e posso dire oggi che avrei dovuto farlo prima. Giocare in un campionato più competitivo ha aggiunto una dimensione professionale che mi ha migliorato in maniera determinante. Ovviamente, non sempre è facile vivere lontano dalle proprie radici e dai propri affetti. Soprattutto in momenti difficili, si ha bisogno di punti di riferimento». Quanta differenza nel passaggio da Narbonne a Gloucester? «Parecchia. Quello francese e quello inglese sono due campionati molto diversi, sebbene entrambi difficili. Personalmente mi trovo più a mio agio nel sistema anglo-sassone dove nulla è lasciato al caso e c'è grande attenzione anche ai minimi particolari. In Francia, ad esempio, vi è una grande differenza tra giocare in casa e giocare in trasferta, e questo per me che devo sempre dare il massimo per essere soddisfatto risultava frustrante. A Gloucester ho trovato tutto quello di cui ho bisogno per esprimermi al massimo». Molti giocatori del giro della nazionale giocano in Francia e in Inghilterra: vantaggo o danno per l'Italia? «Per i giocatori confrontarsi con i migliori è uno stimolo alla crescita, poi in nazionale dobbiamo essere bravi a sintetizzare le diverse esperienze». È l'anno del definitivo salto di qualità per il rugby azzurro? «Questo per noi deve essere l'anno delle vittorie. Abbiamo un gruppo che gioca insieme dalla World Cup 2003, abbiamo avuto bravi allenatori e siamo maturati pur avendo un'età media bassa, ora è il momento delle responsabilità individuali da parte dei giocatori. Ciascuno deve essere in grado di fare qualcosa che nessun'altro può fare per te. Ormai siamo pronti a reggere la pressione del livello internazionale e abbiamo il dovere di provarci». Quanto incide il lavoro di Pierre Berbizier sui miglioramenti del gruppo? «Moltissimo. In Pierre è fondamentale la praticità sul campo e la straordinaria capacità di dirti cose che poi puntualmente riscontri nel gioco. Questo conferisce grande carisma alla sua figura e lega il lavoro dello staff a quello della squadra». Si immagina il suo futuro da qui ai prossimi dieci anni? «Per

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