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di GIANFRANCO GIUBILO IMPERATIVO: guardare avanti.

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E ancora numeri da record in attacco e in difesa, a garantire un primato che in fondo regge tuttora. Certo brucia, al tifoso, che il primo scivolone stagionale sia giunto in coincidenza con l'appuntamento più atteso, la sensazione della grande occasione mancata, il timore che la bella sicurezza esibita fino alla pausa natalizia possa incrinarsi, che il contraccolpo psicologico possa incidere negativamente, perfino oltre la logica. Alla Roma, al suo artefice, ai suoi interpreti, il compito di cancellarli con autorità questi dubbi, concentrandosi sul futuro e valutando, attraverso un lucido e non furioso esame di coscienza, quali siano state le cause all'origine di una serata negativa, cause che vanno al di là perfino della straordinaria prestazione del Milan. Un Milan che ha rimediato all'assenza più pesante, quella di Nesta, presentando due veterani non soltanto memori di antichi splendori, ma capaci di riproporli dall'alto dell'esperienza ma anche di un'applicazione feroce, che i campioni sanno trovare nei momenti cruciali. Pippo Inzaghi o Tomasson, sono pronto a giurarci sopra, Ancelotti non li avrebbe mai fatti giocare, nel ricordo di una Roma che già in una precedente occasione aveva sofferto moltissimo nel dover affrontare Sheva schierato come unica punta effettiva. Tener palla, aveva predicato Ancelotti: e i suoi lo hanno assecondato al meglio, da artisti del palleggio come è facile definire un Rui Costa, un Kakà, un Seedorf. Nell'elencare i punti di forza del Milan, si propongono all'attenzione le lacune della Roma, che identiche, e forse superiori potenzialità, non ha saputo esprimere perché non sufficientemente assecondate dalla giusta tensione e da una corretta interpretazione mentale delle implicazioni che lo scontro avrebbe proposto. Nel commento alla partita avevo individuato come chiave di lettura la renitenza al rientro assiduo da parte delle tre punte: dato puntualmente riproposto nel dopo partita da Capello, che qualcuno vorrebbe già sul banco degli imputati per i cambi improduttivi. Ma nessuno è in grado di affermare che gli stessi uomini del primo tempo sarebbero stati in grado di contenere la bella aggressività di un Milan che disponeva di una marcia in più. I motivi di questa costante passività nei contrasti e della latitanza dei raddoppi, sofferti invece dai giallorossi più temuti, li spiegherà il tecnico, ai suoi, con accenti molto chiari. Ma mi riesce difficile trascurare l'effetto pernicioso del trionfalismo dilagante della lunghissima vigilia: se è ammissibile per il tifoso, non lo è per i giocatori. Nessuno dei quali, ne sono certo, pensava a un Milan alla resa dopo una fine d'anno avvilente, però riteneva forse che neanche la migliore espressione di Sheva e compagni sarebbe stata sufficiente a frenare la marcia di una Roma bella fino all'eccesso di compiacimento. L'esame della serataccia non deve basarsi su recriminazioni, su distribuzione di responsabilità più o meno pesanti, su accuse personalizzate. Va invece indirizzato al futuro, immediato e lontano, alla riflessione sull'impossibilità di vincere fondandosi sulla soggezione imposta all'avversario di turno. Ma contando se una compattezza e un'umiltà da ritrovare, una volta dato per certo che questa Roma è probabilmente la migliore di sempre, e dunque in grado di prefiggersi i traguardi più ambiziosi. Ci sarà da preparare, in uno spazio più ridotto rispetto alle consuetudini per le anomalie del calendario, un turno molto più impegnativo di quanto non reciti una classifica che in code annovera squadre fortemente penalizzate da malasorte, arbitraggi vessatori o episodi balordi. Si parla del Lecce, che per mezz'ora buona ha imperversato a San Siro, ma nel nostro caso interessa soprattutto il Perugia, che attende la Roma in uno stadio famoso per non aver mai riservato ai giallorossi l'ombra di un sorriso. Due leggi dei grandi numeri a confronto: zero vitto

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