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di FRANCO MELLI QUEL RIGORE decisivo di Shevchenko, spot lanciato dall'Old Trafford alla dimensione ...

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Dove, prescindendo dai pazzi cortei improvvisati dopo dentro Manchester o in altri santuari milanisti, tutto viene affidato al cielo, come quando gli atleti diventano solo esecutori d'un destino sfuggito alle loro capacità possibili. E dove, dopo i tempi supplementari, la tonnara dei penalty, voluta dal 1986, si fa metafora per chi soccombe delle occasionali crudeltà spesso rintracciabili nel mondo moderno, salvo cercare poi spiegazioni plausibili. Che durante la finalissima italiana privilegiano forse l'impercettibile superiorità rossonera, quanto a determinazione e produzione offensiva, merito però non sintetizzato in oltre centoventi minuti con il gol liberatorio. Che valutato ogni particolare, cioè prodezze vane, tensioni, emozioni ed episodi volati via, rimanda sempre l'epilogo alla lotteria dei tiri dagli undici metri, soluzione abbastanza cinica imposta per ragioni di spettacolarizzazione televisiva. Certo, qui giunti molti cronisti racconteranno un club bianconero improvvisamente abbandonato dalla Grazia divina, quasi non formicolassero già messaggi negativi causa la squalifica-Nedved e i guai muscolari del pitbull assaltatore. Certo, i più superficiali aggiungeranno gli sventurati Trezeguet, Montero e Zalayeta, anche se interpretarono appena il giudizio della sorte e quanto forze supreme assegnavano alla Juve, notai irresponsabili d'una calamità trascendentale. Certo, la sesta coppa dei campioni berlusconiani e la quarta di Paolo Maldini, ha sopra stampate le mani prensili di Dida, saltimbanco addirittura preferito allo strepitoso Buffon in quei momenti. Serve storcere il naso sui contenuti poco esaltanti della vicenda agonistica memorizzata? Non è ozioso precisare che trascinato dal ruvido Gattuso, il Milan centra l'obiettivo (auspicato per nove stagioni) avendo pareggiato quattro partite su cinque nella fase cruciale dell'hit parade europea? A nostro avviso, la sventagliata adrenalinica sopportata l'altra sera rivela giusto il pregio indelebile di togliere Carlo Ancelotti dallo scomodo ruolo di perdente fisso. Con cinque; anzi, dieci battute dal suo trepidante osservatorio! Con uno squassante testa-croce, mentre probabilmente rivedeva lampi di due campionati juventini culminati nel beffardo esonero, nonostante i centoquarantaquattro punti accumulati. Con l'urlo dello stakanovista affrancato dai fluidi negativi, in alcuni giri di roulette da attentato alle coronarie. Lui e la sfiga evaporata, almeno volendo dare retta alle maldicenze appiccicate sui suoi sprint trapassati. Lui e Lippi, in un duello ribaltato grazie alla solita casualità che gli aveva anteposto l'allenatore viareggino, così chirurgico nelle svolte cruciali, così funzionale alle tradizioni sabaude. Tutte leggende metropolitane, cui i giornalisti prestano orecchio e resoconti quotidiani per suggestionare l'opinione pubblica. Tutti adesso pronti a chiedere scusa, dimenticando il > (definizione ancelottiana, registrata prima dei derby continentali) montato nella prima metà di questo mese trionfale. Sostenevano che lo stratega emiliano barcollasse, non perdonandogli Galliani amnesie ulteriori dopo quel facile scudetto catturato dal suo eversore abituale. Sostenevano che risultasse accomunato a Cuper nelle amarezze ai totali, etichetta ricevuta da Eriksson il 14 maggio 2.001 sotto al nubifragio perugino. Sì, i laziali festeggiavano increduli e Ancelotti abbassava ancora la testa. Aspettava. Opponeva semmai i suoi trascorsi di centrocampista pluridecorato, quasi intendesse negare una carriera didattica predeterminata dagli imprevisti infelici. Ha avuto ragione. Ha sgretolato il tabù perfido, da bravo figlio di Liedholm e Sacchi. Restano a Lippi, i sogni infranti.

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