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Fulvio Pierangelini: "La grande cucina? Si fa senza compromessi"

Susanna Campione
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Incontro Fulvio Pierangelini nel giardino dell’Hotel De Russie, tra gli alberi di limoni e di arance di cui parlava Jean Cocteau nel 1917, quando abitava l’albergo. Pierangelini, chef famoso in tutto il mondo, è universalmente conosciuto come il Maestro. Nel mondo della ristorazione è un unicum, va controcorrente, stupisce i commensali con la semplicità, considera l’imperfezione il presupposto di nuovi canoni di gusto, ama gli ingredienti in purezza, senza manipolazioni. Di lui hanno scritto in molti, pochi però sanno che, dopo essersi laureato in scienze politiche, si era iscritto a giurisprudenza, sognando una carriera da ambasciatore, che ha praticato l’arte del karate, vincendo la Coppa Italia Juniores e che è stato un velista brillante. Una personalità poliedrica che nella cucina ha dato risultati di rara eccellenza.
Maestro, come inizia la tua carriera di chef?
«Da ragazzo facevo il bagnino a S. Vincenzo in un complesso alberghiero. Appena potevo entravo in cucina, mi piaceva osservare i cuochi mentre si avvicendavano ai fornelli. Per farmi accettare pulivo montagne di verdura poi ho guadagnato la loro fiducia e quando finivano di lavorare cucinavo per loro. Nel 1977 ho aperto il mio primo ristorante».
Il famoso Gambero Rosso?
«Il Gambero Rosso è venuto dopo. Inizialmente ho aperto un ristorante a Baratti, preparavo piatti flambè, mi divertivo moltissimo. Un giorno a S. Vincenzo ho visto un ristorante vicino alla spiaggia, si chiamava Gambero Rosso, ho pensato che lì avrei potuto cucinare guardando il mare e con la mia liquidazione di bagnino l’ho comprato». 
Quando è arrivato il successo? 
«Noemi Cinzano scelse il mio ristorante per festeggiare il suo matrimonio, tra gli invitati c’erano l’Infanta di Spagna e la famiglia Agnelli. Da allora vennero in molti al Gambero».
Come hai incontrato Rocco Forte?
«Veniva a mangiare al Gambero Rosso e un giorno mi chiese di fare da consulente nei ristoranti dei suoi alberghi. Ci pensai un po’ e poi accettai. Ho iniziato con l’Hotel De Russie, dove svolgo gran parte del mio lavoro. Di recente mi sono occupato dei tre ristoranti dell’Hotel de la Ville in via Sistina. Questo mi permette di formare i giovani che iniziano a lavorare nella ristorazione».
Come vivi questo periodo di emergenza?
«Non vivo nella paura, più che i virus che attaccano il corpo temo quelli che infestano gli animi. Cerco un modo di partecipare alla soluzione del problema, facendo quello che ho sempre fatto: rispettare la materia prima, cercare l’eccellenza senza compromessi. Quando non trovo quello che mi occorre in cucina lo faccio produrre: ho fatto coltivare alcune verdure, ho pensato a un’alimentazione sana per le galline in modo che producessero uova eccelse, alla fine quelle uova sapevano di vaniglia. Non puoi avere un prodotto eccellente se non parti dall’inizio del processo produttivo».
In che modo potremo uscire da questa fase difficile?
«Sono uno chef e non spetta a me dettare norme di comportamento, ma ora è indispensabile privilegiare l’essere umano sul profitto. Ormai non abbiamo altra scelta se non vogliamo estinguerci».
Come immagini la ristorazione dopo questa emergenza?
«Penso ai cuochi come al baluardo contro la massificazione del gusto e la supremazia delle multinazionali. Privilegiare i prodotti del territorio, i cibi con cui siamo cresciuti che sono la nostra identità comporta minor guadagno ma è l’unico modo per evitare la globalizzazione del gusto».
Siamo ancora in tempo per fare tutto questo?
«Si, se ci fermeremo prima di andare contro l’iceberg. Ti ricordi la canzone di De Gregori? Il mozzo avverte il capitano che la nave sta andando contro la montagna di ghiaccio e il capitano risponde: ”Signor mozzo non vedo niente, andiamo avanti tranquillamente.” Il COVID 19 è un grande campanello d’allarme: prima della catastrofe dobbiamo rallentare e cambiare rotta».
 

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