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Caos Covid, scambio di salme all'ospedale Sant'Andrea

Francesco Storace
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In Procura c’è già un fascicolo. Il pubblico ministero si chiama Pietro Pollidori. Quella donna morta all’ospedale Sant’Andrea e che per la famiglia è stata persino scambiata per un’altra persona potrebbe provocare grossi guai alla struttura sanitaria e a chi ha sbagliato.

È una storia da brividi quella ricostruita dallo studio degli avvocati Romolo e Massimo Reboa, che sostengono il diritto dei familiari di Giuseppina Di Somma a capire come e perché una donna entrata in ospedale per un motivo diverso, muoia invece di Covid e soprattutto non si sa ancora se si tratta della persona poi sottoposta a cremazione.

Il tutto comincia a metà marzo, a coronavirus appena entrato in Italia. 

La signora Giuseppina è un’anziana signora che entrerà al Sant’Andrea il 14 Marzo con tanti problemi di salute, ma non il Covid, appunto, che contrarrà in un ospedale da cui non uscirà viva, ma della quale la famiglia il 31 Marzo perderà persino le tracce all’interno della struttura ospedaliera, per poi ricevere la notizia di un decesso che non si sa neppure quando sia avvenuto. Addirittura i figli - tra cui una agente di polizia - ipotizzano anche uno scambio di salme con quello di altra anziana paziente, la signora Agnese, con la cui figlia si erano incontrati a “Chi l’ha visto” quando si sono rivolti alla trasmissione perché secondo l’URP dell’ospedale i loro genitori non erano ricoverati all’interno del nosocomio. Praticamente spariti.

Uffici chiusi, telefoni che non rispondevano, ma gente che entrava ed usciva dall’Ospedale con il proprio possibile carico di virus senza alcun controllo. E, dopo, ad emergenza finita, cartelle cliniche con i dati di altri pazienti. 

Anziani pazienti non affetti da Covid trasferiti a morire proprio nei reparti Covid, con accertamenti della morte sommari, senza rispetto delle procedure previste per il caso di “morti presunte”, un ospedale che le denunce descrivono come una sorta di infernale girone dantesco, piuttosto che una struttura sotto pressione per l’emergenza sanitaria.

Ovviamente spetterà al magistrato chiarire che cosa sia accaduto. Ma per ora, alla lettura delle carte dello studio Reboa, emergono con certezza alcuni elementi. Anzitutto, il 14 marzo la donna entra in ospedale per una forma di ictus e polmonite. Non per Covid, tanto è vero che in quei giorni è trasferita in medicina d’urgenza.

Ma il 28 marzo è trasferita in un altro reparto, sconosciuto!, perché a medicina d’urgenza era arrivato il Covid-19. Fino a tre giorni prima, i familiari l’avevano trovata in buone condizioni di salute, pur nella difficoltà legate ad un ricovero.

Le viene fatto il tampone, come a tutti i sanitari e i pazienti del reparto, ma il responso non viene mai comunicato alla famiglia. La figlia, appunto poliziotta, a fine mese si rivolge addirittura all’Urp e poi alla direzione sanitaria, e viene a sapere che la mamma non risultava ricoverata. Forzando poi la mano, scopre invece che si trovava al reparto Covid. Semplicemente alla famiglia non bisognava dirlo, altro mistero.

Ancora: il 6 aprile, poco prima di mezzanotte, la figlia riceve, per l’avvenuto decesso della mamma, la telefonata del medico di turno. Nella cartella clinica risulterà spirata il 7 aprile, a mezzanotte e cinque minuti. Ma - parla sempre la cartella clinica - allora a chi è stato fatto un elettrocardiogramma datato a mezzanotte e trentadue minuti?

Salvo poi scoprire, che ben tre pagine del documento appartengono ad un paziente: un uomo…

Agli atti figurano anche numerose contraddizioni tra gli esiti dei vari tamponi effettuati in più giornate e soprattutto non si capisce più a chi appartenga il corpo sottoposto a cremazione. Ce n’è abbastanza per pretendere verità anche dall’ospedale Sant’Andrea.
 

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