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Non è spocchia, ma Ferragosto è la festa più romana che c'

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Acominciare dalla nascita e per finire con lo sfondo della città moderna, menefreghista come le sue piazze abbacinate dal sole, monumentali, distaccate: tanto sono eterne, nessuno le può mettere in discussione. Sfondi perfetti per i film. «Nella Roma deserta di un Ferragosto qualunque» è la narrazione che dà il via a «Il sorpasso» di Dino Risi. E le facce da schiaffi di Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant che sfrecciano a bordo della decapottabile sulla Cristoforo Colombo sono icona dell'Italia del boom. Come, vent'anni dopo, in «Un sacco bello» il bullo Carlo Verdone che sotto l'obelisco di Piazza del Popolo organizza improbabili vacanze. Poi c'è la questione della primogenitura. Dicono che questa festa l'abbia inventata il primo imperatore di Roma, il furbo Ottaviano Augusto. Era il 18 avanti Cristo, andavano celebrati i raccolti e la fine del lavoro nei campi. Feriae Augusti, il riposo del divo Augusto, dunque. E dei suoi sudditi, per accrescere il consenso popolare. Sgombrato il campo dalla cornice, andiamo al contenuto, alla sostanza. Che a Roma resta comunque la magnata. Di rigore, nel pranzo di Ferragosto, il rosso. Aldo Fabrizi sciorinava il menù schioccando la lingua: pomodori col riso, pollo coi peperoni, parmigiana di melanzane, cocomero. Però poi per sé sceglieva il solito piatto di bucatini, le braciolette d'abbacchio a scottadito, un'insalatina affogata nell'aceto. All'una in punto a tavola, sulla terrazza, insieme con Anna Magnani e pochi altri, per un rito lento, propedeutico alla pennica della controra. «Oggi se pranza in piedi in ogni sito - pontificava saggio - er vecchio tavolino apparecchiato, che pareva un altare consacrato, nun s'usa più: la prescia l'ha abolito». Ha ragione, sul menù e sulla fretta. Allora, domani, facciamo come lui. I pomodori col riso, per cominciare. Paonazzi e giganti, vanno scavati lentamente con il coltellino concavo. Il succo e i semini diventeranno un laghetto dove tuffare il riso crudo e farlo restare a galla almeno un'ora, per dargli sapore. Da risolvere presto, invece, il quesito degli «odori»: origano o basilico? La tradizione propende per il primo. Poi via, la teglia si infila nel forno, rimpinzata anche di patate a tocchettoni. Anche il pollo coi peperoni esige tempo e pone un quesito. «Abbrustolire» i peperoni sulla graticola per far fuori la pelle, anzichenò indigesta, o metterli crudi nel tegame, insieme con il ruspante trinciato a pezzi senza pietà? Nonna avrebbe optato per la versione più scocciante, non foss'altro perché sporca di coriandoli bruciacchiati tutta la cucina. Ma il volatile affogato nel pomodoretto e nei peperoni sarebbe risultato per tutti più lieve del semolino in brodo. Per la parmigiana, invece, niente da fare. Le melanzane vanno fritte con cura, senza sconti di olio e alla faccia del colesterolo. Però il sughetto da spargere a strati nella teglia - insieme alle fette di mozzarella - sarà leggero, ma profumato con le foglie di basilico prese dalla piantina sul davanzale. Per fortuna «a pulì» la bocca a fine pasto c'è il cocomero. «Dajè ch'è rosso», il sempiterno coro dei commensali mentre il coltellaccio lo riduce in fette. Poi, tutti stesi sotto la pergola, a dormire. Uno schiaffo alla prescia.

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