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Elisir d'Opera

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diLORENZO TOZZI Questa volta Ruggero Cappuccio, scrittore, regista e drammaturgo, sponsorizzato da Muti, dovrà vedersela con l'allestimento del popolare «Elisir d'amore» donizettiano, in scena al Teatro dell'Opera da venerdì prossimo sotto la direzione di Bruno Campanella. Un allestimento innovativo, ma senza trasgressioni. Come è nato il desiderio di affrontare la regia lirica? È stato naturale. Quando mettevo in scena i miei lavori di prosa, c'era quasi sempre musica dal vivo. Per Ronconi riscrissi il Tieste di Seneca ambientandolo nella Sicilia degli Anni Quaranta: c'era un pianoforte ed un quartetto che suonavano sempre mentre gli attori recitavano. Sono stato sempre affascinato dalla musica: la parola si ascolta, non si legge. In famiglia la lirica era di casa. Il passaggio doveva essere quindi naturale: tutto nacque quando Muti mi invitò a mettere in scena la Nina pazza per amore di Paisiello, basato sul dialogo in prosa. Poi venne un Falstaff particolare a Busseto per il centenario verdiano: in un piccolo teatro la platealità dei gesti aveva un suo significato. Poi un inedito Cimarosa comico a Salisburgo ancora con Muti. Ma come si dimostra Muti con i suoi registi? Una persona estremamente cavalleresca: garantisce il rispetto al mondo del teatro a patto che il mondo del teatro abbia rispetto della musica. La mania di cercare stupore a tutti i costi spesso è antimusicale. La musica è l'arte che attraverso un'apparente immobilità produce un movimento interno vastissimo. Accentuare questo movimento può essere deleterio per la musica. Tra le antitetiche tradizioni registiche odierne come si colloca? Nella storia della messinscena ci sono due manierismi: il primo pretende che le cose si facciano secondo l'immaginario tradizionale, il secondo che si debba tradire a tutti i costi. Il tradimento sembra innovazione, ma spesso diventa operazione di puro cronachismo. Moderno non è ciò che accade oggi, ma quello che vale per sempre, che non conosce scadenza. Parliamo allora di questo Elisir. La storia della sua messinscena è afflitta dal folklore. Si tende a farlo con la cura del dettaglio scenico. Cosa interessante se la fa un Visconti, ma se i dettagli diventano preponderanti non è più interessante. Ho pensato così una scena bianca che denuncia il teatro, manovrata da acrobati, giocolieri, figuranti che la cambiano durante l'opera. Non è la strada realista, ma gioco dichiarato: il mondo bucolico dei contadini diventa il mondo di funamboli ed equilibristi. L'elisir d'amore vide la luce dopo Stendhal, Goethe, Byron. Ci sono le solite tre persone con un amore contrastato, ma qui l'ostacolo è solo un'invenzione di Adina, che non crede nella fedeltà in amore. Si inventa così un pretendente in Belcore, che manovra come un pupo. L'amore, come la musica, ha senso se mette in scena complicazioni destinate ad essere risolte. Amo la sospensione nel tempo, la capacità onirica di Donizetti e quella di far sorridere senza dimenticare la malinconia. È una grande lezione per la drammaturgia napoletana a venire, anche per Eduardo.

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