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di LORENZO TOZZI Ogni inaugurazione mira ad un consenso straordinario.

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Maanche su un grande sforzo produttivo, proprio come questo raro «Moïse et Pharaon» (1827) di Rossini, antesignano del genere grand-operistico francese, rinato a nuova vita iersera nella anteprima di beneficenza per la Comunità di S. Egidio, ora per la prima volta all'Opera di Roma, sotto la bacchetta di Riccardo Muti. Un'opera atta a dimostrare quella eccellenza determinante per l'effettivo rilancio del Costanzi. E il capolavoro rossiniano rispondeva alla necessità. Da una parte c'era il genio indiscusso del Rossini maturo, rilevato ed valorizzato dalla lettura incisiva di Muti che esalta la epicità del tema biblico (la netta contrapposizione di due popoli) senza mai scivolare nella retorica. Dall'altra il fascino di un' ambientazione tra le più spettacolari e il confronto - scontro tra oppressi ed oppressori nel segno di una coralità che fornirà più di uno spunto al Nabucco verdiano. In sintonia con quelle musicali anche le architetture scenografiche appaiono grandiose, improntate alla magnificenza dell'ambientazione egizia. Ma a tener desta l'attenzione sono anche i colpi di scena culminanti nel sempre atteso finale attraversamento del Mar Rosso. Il tutto rappresentato dalla lucidità visionaria di Pier'Alli che innova senza tradire la tradizione, a partire da costumi sobriamente in stile Star Trek o da Guerre stellari. Il suo muro del pianto si presta a letture simboliche. Di qualità l'intero cast vocale: svettavano Ildar Abdrazakov (Mosè) ed il suo antagonista Nicola Alaimo (un inflessibile Faraone). Toni più caldamente umani per le vocalità preromantiche di Eric Cutler e Anna Kasyan (gli innamorati sugli opposti schieramenti), forse troppo astratte e generiche le danze del cinese Shen Wei. Confortante la prova del coro costantemente impegnato. Alla fine trionfali applausi per tutti, ma in particolare per il maestro Muti.

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