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Il diritto all'uguaglianza, a esprimere la propria differenza pubblicamente senza essere discriminati, muore quando ciò diventa una vera ossessione.

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Ognigesto, ogni parola, ogni canzone (e Povia ne sa qualcosa) che «tocchi» il mondo gay e lesbo, magari criticandolo, rischia di diventare sempre il pretesto per gridare all'omofobia. Succede che il rettore de La Sapienza, Luigi Frati, non dà l'autorizzazione alla rassegna di cinema gay e transgender, «Queer in Action», nei locali del suo ateneo. Il motivo, spiega Frati, è che a organizzare l'evento è un'associazione non universitaria, che vorrebbe aprire l'ateneo anche agli estranei. Inoltre, per permettere lo svolgimento della manifestazione servirebbe il parere del Senato accademico. Parere che non c'è. «Visto che è una rassegna cinematografica vadano alla Casa del Cinema», dice Frati. Per le associazioni, invece, la scelta del rettore sarebbe indirizzata dal timore che la manifestazione diventi oggetto di attacchi omofobi all'interno dell'università: «Questo rifiuto legittima la cultura omofoba - dicono i rappresentanti - e dimostra che essa ha già vinto, riuscendo nel suo intento di toglierci gli spazi di visibilità». Eppure il ragionamento di Frati che ruota attorno al suo «no», non dà modo di pensare a una discriminazione. Anzi, la valutazione sull'opportunità di concedere o meno i locali sembra dettata da principi che potrebbero valere per tutti. Proprio come il mondo omosessuale dovrebbe sperare.

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