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"È un angelo della morte che uccide perché ha pietà"

Francesco Bruno

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Intendiamoci, non tutte le persone che uccidono in serie sono serial killer. La definizione per un profano forse ha poca importanza. Ma per un esperto è fondamentale: l'assassino seriale, infatti, deve avere certe caratteristiche, prima fra tutte il «piacere» di manipolare la sua vittima, da viva o da morta. Altrimenti si parla di pluriomicida. In questo caso, secondo Francesco Bruno, che di esperienza ne ha da vendere, siamo davanti a un cosiddetto «angelo della morte». Una via di mezzo tra i due profili psicologici. Può essere più chiaro, professore? «Spesso si tratta di infermieri o medici i quali ritengono che le loro vittime soffrano troppo e, di conseguenza, li mandano al Creatore». Un movente in apparenza «caritatevole»? «Esatto. Ma tali soggetti sono affetti da una sindrome del Padreterno, un delirio di onnipotenza che li porta a pensare di poter distribuire la morte. Un'altra categoria, vicina e condivisa, è quella delle cosiddette "vedove nere"». Cioè?  «Avvenenti fanciulle che si trovano come compagno un vecchietto benestante il quale, in seguito, si spegne a causa di strani incidenti o malattie che sono in realtà avvelenamenti lenti e progressivi. Casi di questo tipo ce ne sono stati molti, ma in genere vengono scoperti dopo la terza o la quarta vittima». Qui invece siamo di fronte a una decina di omicidi... «Infatti. E mi sembra che siano presenti entrambe le caratteristiche. Escluderei un parente, perché dopo qualche morte improvvisa si farebbe notare. E poi le vittime dovrebbero in qualche modo essere collegabili fra loro». Perciò? «Resta l'infermiere che va a fare l'iniezione a domicilio o la badante. È possibile che qualcuno di questi soggetti sia passato all'omicidio». Come si accende il sospetto? «Il numero dei decessi è un elemento basilare. C'è però il fatto che, se la morte è giudicata naturale, gli investigatori non investigano. Dovrebbero essere le famiglie della vittima a dare l'allarme o a sottolineare situazioni nebulose». A questo punto partono le indagini. Sono complesse? Su quali elementi si basano? «Il primo compito degli inquirenti è sincerarsi che si tratti di delitti. Si passano al setaccio le cartelle cliniche; se c'è stata, si controlla l'autopsia; in alcuni casi si chiede la riesumazione del corpo. Si verifica, inoltre, la ricorrenza della presenza di quella persona nei "paraggi" della vittima. Ma, per farlo, ci deve essere un procedimento aperto, almeno contro ignoti». Il Dna serve? «In questi casi non molto. Se l'assassino, ad esempio, è un infermiere che è stato a contatto per motivi sanitari con la vittima, può aver lasciato tracce biologiche durante il suo lavoro. Tuttavia, il Dna può servire a scoprire l'identità del colpevole se questi si è presentato con identità diverse. Con il detective in provetta si potrebbe sapere se è la stessa persona o meno e, probabilmente, così è stato nel caso specifico di cui parliamo». Il profilo da lei tracciato conduce a motivi d'interesse, non ai moventi psicologici tipici del serial killer. «È vero. L'assassino seriale è caratterizzato dalla manipolazione della vittima. Se non c'è questo, parliamo di un pluriomicida. Comunque può essere una fase di passaggio: all'inizio si può credere di uccidere per soldi mentre invece si uccide anche per puro piacere. Il piacere di un serial killer».

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