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Rachele Zincocchi «Le guardie giurate salite sul Colosseo? Tutti i sindacati hanno sottoscritto verbali di accordo, parte integrante dell'atto di acquisto dell'Istituto.

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Noiinvece abbiamo fatto un'operazione industriale che rilevava tutto senza mandare a casa nessuno. E il peggio è successo ora. Con gli altri due soci abbiamo ricevuto una busta con una pallottola, a scopo intimidatorio». È provato Sergio Biasini, presidente dell'Istituto di Vigilanza dell'Urbe spa, dopo le reazioni all'acquisizione dell'azienda da parte di una cordata di imprenditori il 31 luglio, con dipendenti che già dal 14 agosto hanno manifestato contro la privatizzazione e il presunto pericolo di licenziamenti. «Altro che licenziamenti», incalza Biasini. «L'Istituto era in stato fallimentare, ma mentre altri offrivano la cifra ridicola di 1 euro per rilevarlo, noi abbiamo pagato 1 milione 619 mila euro in contanti e ci siamo impegnati non solo a mantenere tutti i 940 livelli occupazionali, ma anche a proseguire l'attività industriale, con investimenti in nuove tecnologie per 6 milioni di euro di qui al 2011». Ma l'accordo coi sindacati c'è stato? «Non solo c'è stato, ma garantito da timbri del notaio», precisa. «I verbali di consultazione e accordo del 9 luglio sono parte integrante del contratto di cessione d'azienda e sono stati firmati da tutti i sindacati: Cgil, Cisl, Uil e i sindacati autonomi, compresi quelli che rappresentavano chi è salito sul Colosseo. Poi però è scoppiato il finimondo. I nuovi contratti d'assunzione andavano firmati entro il 13 agosto: quando però ho visto che alcuni non intendevano più aderire nonostante gli accordi, ho detto che avrei prorogato sino al 20 purché rinsavissero. Invece è stato l'inferno: hanno scardinato il cancello, danneggiato macchine, dato fuoco ai citofoni». Perché una simile reazione? «Dicevano che "pubblici" erano e "pubblici" volevano rimanere, come fosse garanzia di lavoro. Ma una vigilanza pubblica non esiste. La stessa Associazione nazionale combattenti e reduci, da cui l'Istituto dipendeva, è un ente morale di diritto privato». Conclude: «Mi verrebbe da pensare al disegno di qualcuno per metterci i bastoni fra le ruote e non farci partire, nonostante avessimo vinto una gara a evidenza pubblica e il prezzo pagato, come il piano industriale, fossero stati ritenuti congrui dal Ministero per lo Sviluppo Economico. Nessuno ci ha tutelati. A rimetterci è stato chi voleva salvare un'azienda dal fallimento, con tutti i suoi 940 posti di lavoro».

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