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Riace, finalmente Mimmo Lucano è decaduto. I giudici: “Condotta criminosa”

Gaetano Mineo
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Ci sono volute venti pagine di sentenza per mettere la parola fine a una resistenza che durava da mesi. Mimmo Lucano, l'europarlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra che ha fatto della legalità la sua bandiera, si è aggrappato fino all'ultimo alla poltrona di sindaco di Riace. Ma ieri il Tribunale di Locri ha depositato la sentenza che ne decreta la decadenza, applicando la Legge Severino. La vicenda ha i contorni di un paradosso: un politico condannato in via definitiva che continua a esercitare il potere, blindato dalla maggioranza di centrosinistra del Consiglio comunale che, a sua volta, aveva votato contro la presa d'atto della sua decadenza. Un muro di gomma che si è però infranto contro la determinazione della Prefettura di Reggio Calabria, che ha portato la questione davanti ai giudici. La condanna che ha innescato questo epilogo risale al febbraio scorso, quando la Corte di Cassazione ha reso definitiva la sentenza di un anno e sei mesi per falso ideologico commesso da Lucano in qualità di pubblico ufficiale.

 

 

Un reato che affonda le radici nell'inchiesta "Xenia", quella che ha fatto tremare il celebrato "modello Riace" di accoglienza e integrazione dei migranti. I giudici di Locri sono stati chiari nelle loro venti pagine di ricostruzione: “… la condotta criminosa che ha portato alla condanna definitiva del Lucano, ad avviso del Collegio, comportava ictu oculi l'abuso dei poteri certificatori connessi alla sua posizione di pubblico ufficiale…”. In altre parole, “l'imputato è stato condannato per avere, quale Sindaco, attestato falsamente di aver effettuato i controlli sui rendiconti propedeutici all’erogazione dei finanziamenti relativi al rimborso dei costi di gestione dei progetti Cas (essendo stato assolto in relazione ai fatti contestati per gli altri) asseverendoli, dunque, pur in assenza dei presupposti”. Da qui la decadenza automatica da sindaco.

 

 

La difesa di Lucano, dal canto suo, aveva tentato di argomentare che il reato contestato non rientrava tra quelli previsti dalla Legge Severino. Una strategia difensiva che puntava a distinguere tra la natura del falso commesso e i presupposti normativi per la perdita del mandato elettivo. Ma i giudici hanno respinto questa linea. L'obiettivo dichiarato è prevenire "l'indegnità morale di chi ricopre cariche pubbliche a seguito di condanne definitive per reati di particolare gravità". Le regole della democrazia sono implacabili: chi viene condannato per reati contro la pubblica amministrazione non può continuare ad amministrare, indipendentemente dal gradimento popolare. È questo il messaggio che emerge dalla decisione del Tribunale di Locri. Ora Lucano ha davanti a sé la possibilità di un ricorso in Cassazione, l'ultimo tentativo per ribaltare un verdetto che segna la fine di un'era. Dal 2004 il suo nome era indissolubilmente legato a Riace, il borgo della Locride che aveva saputo trasformare da paese fantasma a simbolo dell'integrazione. Ma dietro quella narrazione si nascondevano, secondo i magistrati, irregolarità amministrative che hanno finito per travolgere l'architetto del miracolo calabrese. Una parabola che dalla gloria porta oggi all'uscita forzata dal municipio, con buona pace di chi aveva sperato che la politica potesse prevalere sulla giustizia. 

 

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